NOF4 e l’Ospedale Psichiatrico Ferri

 

 

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(a cura di G.Narducci)

Tutti preoccupati di dove passare Halloween, di presentarsi alla festa con il costume più spaventoso. Tutti ansiosi di avere paura. Ma veramente volete la paura? Veramente volete tremare? Davvero bramate i brividi lungo la schiena? Bene, allora vi raccontiamo di un luogo, che vi farà venire la pelle d’oca. Un posto davvero esistente. Una storia vera, perché solo quelle fanno veramente paura. Una storia in cui l’uomo è vittima e carnefice. Una storia in cui, non ci sono streghe e zucche vuote, ma comi indotti con l’insulina e scariche elettriche. Una storia in cui, se eri un povero sfortunato o una persona scomoda, ti rinchiudevano riducendoti ad un corpo usato per testare veleni e pillole, dove ogni contatto con l’esterno era vietato e il mondo, semplicemente si dimenticava della tua esistenza.

Ogni emozione di gioia, di felicità e di pace erano annientate. Tu, che per una serie di sfortunati eventi ti trovavi lì, eri costretto a subire in maniera passiva il buono e cattivo tempo di uomini, che fuori da ogni logica divina e buon senso, ti usavano come cavia, eliminando la tua condizione primaria di persona, di essere. Spogliato di tutto, diventavi un burattino nelle mani di persone senza anima, che all’odore della tua carne che bruciava a causa delle scariche elettriche non provava che piacere .

Fa paura vero?

Odio, rabbia, dolore. Ecco cosa traspare dal quello che rimane oggi dell’Ospedale Psichiatrico Ferri di Volterra. Nato a fine degli anni ’80 dell’Ottocento, come sezione per “Dementi” all’interno del ricovero di medicina dell’ex Convento di San Girolamo, già nei primi anni Novecento iniziò a registrare i primi segni di sviluppo, fino a diventare tra gli anni ‘50/’60, uno dei manicomi più grandi di Italia. Oltre centomila metri cubi di volume. Tre grandi sezioni, oggi in totale degrado.

Uno dei centri più grandi di Italia, con la possibilità di poter contenere fino a seimila (6.000 scritto in numeri forse fa più effetto), persone ricoverate contemporaneamente. Ricoverate. Ricoverate forse non è proprio giusto come termine. Detenute. Ecco si, 6.000 persone, spogliate del loro diritto di nascita, detenute, contemporaneamente. Il tutto distribuito in centomila metri cubi di volume, con 20 lavandini e 2 wc ogni 200 degenti. Il 40 % dei morti registrati, avveniva a causa di malattie trasmesse. Chissà perché.

Se non vi è preso un brivido pensando di dover dividere il bagno con altre 199 persone di media, ogni giorno, per anni e anni, allora siete dei duri. Ma non finisce mica qui.

Noi siamo abituati a comunicare continuamente, in ogni momento della giornata, in ogni istante, c’è chi lo fa anche quando dorme e chi, neanche in bagno si separa dal proprio smartphone. Riceviamo notifiche su notifiche, siamo quasi “drogati” di comunicazione. Ecco, proprio qui vi volevo.

Pensatevi chiusi in una stanza, con qualche ora di “aria” al giorno, opzione fattibile solo se site stati bravi e se siete stati considerati innocui.  Controllati a vista, con magari il vicino di panchina catatonico, con lo sguardo perso nel vuoto, mai una parola, mai un suono, mai un emozione, ma solo il movimento delle palpebre.

Tutto sempre se non eravate ritenuti pericolosi, perché allora in quel caso vi sareste trovati nella sezione giudiziaria, quindi non so quanta “aria”, vi sarebbe stata concessa. Comunque in ogni caso, da regolamento interno si legge che : “Gli infermieri non devono tenere relazioni con le famiglie dei malati, darne notizia, portarli fuori; nessuna lettera, né oggetti, ambasciate, saluti; né possono recare agli ammalati alcuna notizia dal di fuori, né oggetti, né stampe, né scritti…”.  In sostanza, se non eri matto, lo diventavi.

Adesso l’ex manicomio si presenta come un grosso complesso immerso nel verde, dove, tra le grate e dai vetri rotti delle finestre, l’edera si intreccia, come se la natura volesse depurare la terra da tutto quel male e quel dolore. I giovani Writers hanno riempito ogni stanza con murales, di cui alcuni anche interessanti. Qualche simpaticone invece, si è divertito a giocare con dei manichini, messi sdraiati sui lettini o seduti sulle sedie a rotelle, vestiti con giacche e camici bianchi. Chissà, magari pensavano di aumentare il pathos.

In tutto questo, tra le rovine e il degrado, una testimonianza rimane viva, tra le mura del Ferri. Le incisioni di un detenuto, un uomo che lì ci ha passato vent’anni della sua vita. Al secolo Nannetti Oreste Fernando, ma per i 280 metri complessivi di incisioni, semplicemente NOF4. Il 4 forse sta per il numero di matricola o per quello degli istituti in cui è stato rinchiuso. Questo probabilmente non lo sapremo mai, ma quello che sappiamo è che quest’uomo, autodefinitosi come “L’austronautico ingegnere minerario del sistema mentale”, ha lasciato ben 180 metri di incisioni nel muro esterno del Ferri e 102 metri, in un passamano in cemento di una delle scalinate dell’edificio. Un diario, una biografia, un insieme di parole, disegni, poesie incise nell’intonaco, con l’aiuto della fibbia della “divisa dei matti”.

Nato a Roma il 31 dicembre del 1927, ebbe fin da subito una vita difficile, prima in orfanotrofio, poi in manicomio. Ritenuto pericoloso dopo l’arresto con l’accusa di offesa a pubblico ufficiale, arrivò a Volterra nel 1958 e ci rimase fino alla morte, avvenuta nel ’94. Come molti altri, anche lui, rimase nella cittadina toscana anche dopo la legge Basaglia e chiusura del manicomio nel ’78. I suoi graffiti, in parte staccati dal comune di Volterra, per poterne salvaguardare la memoria e il valore artistico, sono stati riconosciuti come opera d’arte, appartenenti all’ Art Brut. Arte libera e spontanea, come la produzione pittorica dei bambini e degli alienati, dove graffiti scarabocchi e segni sui muri rappresentano l’essenza primitiva dell’espressione umana.

Tra i più famosi graffiti di NOF4, ci sono quelli della panchina, in cui il Nannetti lascia volontariamente la sagoma dei degenti catatonici, continuando a scrivere sopra le loro teste. Graffiti di difficile interpretazione i suoi, ma con una forte carica emotiva, in cui vengono raccontate storie di crudeltà gratuite e di crimini subiti. Testimonianza di ingiustizie, in cui solo il caso sembra abbia potuto scegliere la sorte, la posizione, il ruolo che faceva la differenza tra l’essere la vittima o il carnefice.

In un luogo in cui l’elettroshock era all’ordine del giorno, in cui alle finestre vi erano le grate e le persone erano solo dei numeri di matricola, la testimonianza di NOF4 ci dimostra come, quando tutto ti è negato, quando non sei più padrone della tua vita e non puoi comunicare con l’esterno, l’arte e la scrittura diventano lo sfogo e l’unica possibilità di poter mantenere uno stralcio di umanità, che altri uomini come te, ti hanno tolto.

Il Corridoio Vasariano

( a cura di M. Lachi)

Il Corridoio Vasariano, conosciuto anche come Percorso del Principe, è uno dei tragitti più inusuali e ambiti della nostra Firenze. Messo a punto e collaudato nel 1997 per iniziativa congiunta della municipalità fiorentina e del Ministero dei beni culturali,  è un percorso di circa un chilometro che segue la strada dei musei immergendosi nell’arte e nella storia della città. Non esiste nulla di paragonabile in nessuna città della vecchia Europa.

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Il percorso ha inizio con il Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, opera massima di Giorgio Vasari, in cui risuona tutta la figura di Cosimo de’ Medici e, attraversando una parte sospesa su Via Ninna, prosegue fino ad arrivare alla Galleria degli Uffizi. Questa parte del corridoio vede esposte le statue archeologiche e si snoda tra le sale aperte sui testi supremi della pittura, mentre a destra si scorgono la cupola del Brunelleschi, la Torre di Arnolfo, i tetti e i campanili della città, lo scorcio su Piazza della Signoria e della loggia dell’Orcagna con le sculture, la fontana e il Granduca a cavallo. Una volta all’interno del palazzo degli Uffizi, al primo piano della Galleria, l’ingresso al passaggio si trova dietro ad un portone quasi anonimo. Probabilmente la maggior parte dei visitatori che affollano ogni giorno le sale degli Uffizi ignora del tutto che dietro ad un accesso così semplice si nasconda, invece, un grande tesoro.

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Il Passaggio del principe venne realizzato nel 1565, in meno di cinque mesi, su progetto di Giorgio Vasari mentre l’allestimento espositivo che è oggi visibile, corrisponde grossomodo a quello studiato nel 1973 dall’allora direttore della Galleria degli Uffizi. Alle pareti del Corridoio sono, infatti, appesi numerosi dipinti di autori italiani risalenti a un periodo storico che va dal XVI al XVII secolo. Il passaggio conserva, inoltre, la più grande e completa collezione europea di autoritratti di artisti, da Andrea del Sarto a Chagall a Guttuso, iniziata dal Cardinal Leopoldo de’ Medici nel XVII secolo. Tante altre opere ed autoritratti sono oggi ancora in attesa di trovare una collocazione all’interno del Corridoio.

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Poco dopo l’ingresso, l’atmosfera quasi magica del Corridoio si interrompe per alcuni metri, quando ci si trova ad attraversare il tratto che venne gravemente danneggiato da un attentato di stampo mafioso. Nella notte tra il 26 ed il 27 Maggio 1993, infatti, un’auto carica di esplosivo fu fatta scoppiare nei pressi della Torre dei Pulci, tra via Lambertesca e via de’ Georgofili e cinque persone persero la vita. Vi furono molti feriti e gravi danni alle abitazioni, così come alla Galleria degli Uffizi ed al Corridoio Vasariano. Nel Corridoio la deflagrazione fece saltare alcune tele, causando danni irreparabili alle opere. I quadri sono stati in seguito ricomposti, per quanto possibile, e intenzionalmente ricollocati al loro posto originario, in memoria di quella terribile strage.

Oltrepassato questo tratto del Corridoio, che ricorda una pagina triste, ma senz’altro importante nella memoria di Firenze, la visita prosegue alla scoperta della storia meno recente del  passaggio.
Una delle cose che più colpiscono, oltre alla piacevolezza delle opere che vi sono esposte, è la posizione sopraelevata ed assolutamente privilegiata del Corridoio, che consente di attraversare alcuni dei punti più belli del centro storico di Firenze, camminando in pratica sulle teste dei fiorentini e dei turisti in strada. In alcuni tratti del Corridoio la sensazione quasi di spiare le persone in strada è ancora maggiore grazie ai piccoli affacci e finestre, che guardano sia sul lato del centro storico sia sul fiume Arno. Doveva in effetti essere questo uno dei fini del Corridoio nell’intento dei Medici: potersi spostare liberamente dalla loro residenza a Palazzo Vecchio in assoluta discrezione e sicurezza, osservando l’esterno senza esser notati.

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Nel punto centrale in cui il Corridoio attraversa il Ponte Vecchio si apre uno degli affacci panoramici più belli di tutto il percorso. In questa parte, infatti, nel 1939 Benito Mussolini fece realizzare delle grandi finestre panoramiche che consentissero una splendida vista sull’ Arno verso il Ponte di Santa Trinita. Le aperture furono create in occasione di una visita ufficiale di Adolf Hitler, il quale rimase talmente colpito dalla vista su Ponte Vecchio, che ordinò di risparmiarne la distruzione nel corso della Seconda Guerra Mondiale.

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Oltrepassato l’Arno si trova un’ennesima curiosità del Corridoio: l’affaccio sulla Chiesa di Santa Felicita. Sulla destra, lungo il passaggio, si apre, infatti, una grande finestra con grate di ferro ed un balcone che si affacciano direttamente sull’interno della Chiesa. Si dice che da qui i Medici assistessero alla Messa, potendo contare ancora una volta su una postazione privata e privilegiata, che consentiva loro di non mischiarsi col popolo.

Lo splendido percorso museale moderno del Corridoio Vasariano termina a lato della famosa Grotta del Buontalenti, nel giardino di Boboli.

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Un po’ di storia

Il Corridoio Vasariano fu realizzato da Giorigio Vasari nel 1565 su richiesta di Cosimo I de’ Medici, in occasione del matrimonio del figlio Francesco I con Giovanna d’ Austria. Il passaggio, iniziato nel Marzo del 1565 fu terminato in soli 5 mesi, in tempo per le nozze che furono celebrate il 16 Dicembre dello stesso anno. Grazie a questo percorso sopraelevato i Medici si garantirono la possibilità di spostarsi liberamente ed in tutta sicurezza tra la loro residenza in Palazzo Pitti e la sede del Governo in Palazzo Vecchio.

Il progetto originale del Vasari prevedeva delle piccole finestre e degli affacci sulle strade sottostanti il passaggio e sull’Arno. A questo proposito furono tempestivamente spostate da Ponte Vecchio le botteghe dei macellai, che non offrivano uno spettacolo e degli odori adatti al passaggio dei Granduchi e dei loro ospiti. Al loro posto furono collocate le botteghe degli orafi, che ancora oggi caratterizzano il ponte più famoso di Firenze.

Per realizzare il Corridoio, furono letteralmente attraversate alcune delle case torri che si trovavano lungo il percorso e tutti i proprietari degli edifici dettero il loro consenso all’attraversamento delle loro case, eccetto la famiglia Mannelli, che si oppose fermamente. Il Vasari dovette, perciò, aggirare l’ostacolo deviando il percorso del Corridoio, che passa infatti attorno alla Torre.

All’incirca per i primi 200 anni il Corridoio Vasariano fu utilizzato esclusivamente come passaggio tra le residenze. Il percorso, per quanto fosse lungo solo circa un chilometro, veniva attraversato, con molta probabilità, con una piccola carrozzella, adibita al trasporto di due persone. Lungo il passaggio è, inoltre, immaginabile che vi fossero panchine e sedute per riposare.

Con l’arrivo dei Lorena ed il testamento dell’Elettrice Palatina Anna Maria Luisa de’ Medici gli Uffizi divennero un luogo pubblico e anche il Corridoio perse la sua funzione di passaggio privato. Nel corso dei secoli, purtroppo, sono andati perduti anche alcuni ambienti del Corridoio. In particolare durante la Seconda Guerra Mondiale, a causa dei bombardamenti, il Corridoio ha subito diversi danni: è andato perduto ad esempio un bel bagno decorato con affreschi ed elementi in marmo ed è stato distrutto, ma poi in questo caso ricostruito, il collegamento finale del passaggio con la sponda sinistra dell’ Arno.

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C. Caneva, Il Corridoio Vasariano agli Uffizi, Silvana Editoriale, Firenze, 2002.

La Chiesa di San Pier Piccolo ad Arezzo

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(a cura di G. Narducci)

Ci sono dei luoghi nelle nostre città, che sono inaccessibili. Ci sono posti, nel nostro territorio, in cui riuscire ad entrare risulta spesso non solo un’impresa impossibile, ma quasi un’utopia. Spesso, questi sono da considerarsi come parte del nostro patrimonio artistico. Molto spesso, questi non sono fruibili dai visitatori per cause diverse come “la mancanza di personale”, “la mancanza di volontari”, “la mancanza di fondi”. Insomma, di base c’è sempre la mancanza di qualcosa. Questa naturalmente, si riversa poi anche su tutta la popolazione, o perlomeno su quella fascia che se ne interessa.

A cosa porta questo? Molte sono le conseguenze, ma la prima è sicuramente la perdita della memoria. La mancata fruibilità, la mancata apertura di certi luoghi li porta infatti, ad essere invisibili agli occhi dei più, diventando in alcuni casi, i protagonisti degli aneddoti raccontati tra amici, che tra botte di fortuna e assurde peripezie, sono riusciti a vedere il “luogo impenetrabile” in questione.

Ad Arezzo, uno di questi luoghi è la Chiesa di San Pier Piccolo. Dopo numerosi appostamenti, agguati, richieste e quant’altro, ho finito per parlare con una mia carissima amica, di questa assurda situazione che non mi permetteva di entrare dentro la chiesa, che tra l’altro, tutta la popolazione sembrava aver visto all’infuori di me. In tutta franchezza, la mia amica, mi disse di averla vista in maniera “alternativa” e mi dette due consigli:

  • Il primo era quello di prenotare un tavolo nel ristorante che dello stabile, poi, nell’attesa tra il primo e il secondo piatto, con la scusa di andare in bagno mi sarei dovuta assentare e lì avrei dovuto cercare e trovare la finestrella famosa, cioè quella da cui lei, curiosa come tutte le donne, era riuscita a vedere la chiesa di soppiatto;
  • L’altra possibilità era quella di andare durante le aperture straordinarie dove viene recitato il rosario.

Bene, la seconda sembra forse più semplice e meno avventurosa della prima, ma soprattutto così non avrei rischiato di rimanere chiusa dentro al ristorante o peggio incastrata da qualche parte. Ma non era comunque così semplice. Infatti, negli avvisi sacri, posti all’ ingresso della chiesa non c’è mai nulla se non qualcosa riguardante la Ch. di Sant’Agostino.

Allora cosa potevo fare? L’unica cosa che mi rimaneva era quella di mobilitare tutte le amicizie, quelle credenti e frequentanti, che avrebbero saputo indicarmi la prossima data utile. In tutto questo, la Paolina era la donna che faceva al caso mio, una di quelle che pregano forte, una garanzia per i rosari. Infatti, dopo poco averla contatta mi arriva un messaggio, ed eccola là, la prossima apertura: mercoledì, ore 21.00. Non potevo certo mancare.

La Chiesa di San Pier Piccolo

Venne affidato questo nome alla chiesa, per poterla distinguere da S. Pier Maggiore, l’antica Abbazia dei Benedettini, fondata in origine nell’attuale area del Duomo di Arezzo. La chiesa, edificata nel 1066 ha subito vari cambiamenti, non solo architettonici, ma anche di appartenenza. Infatti, inizialmente era dei monaci Camaldolesi e vi rimase fino al 1204; poi passò ai monaci Benedettini di Montecassino fino al 1387, data in cui, per l’impossibilità di mantenere gli obblighi parrocchiali, venne ceduta infine ai Frati Servi di Maria.

La chiesa appare oggi molto diversa da quello che era in origine. Essa infatti, anche se non molto ampia era a tre navate, con l’ingresso principale in via della Bicchieraia e con la torre campanaria a destra. La piccola chiesa, subì però un vero e proprio restyling nel 1611, quando il P. Priore Bresciani e P. Piero Albergotti, Camerlengo del convento, con l’architetto Antonio Ciapini da Montepulciano, ridussero la chiesa ad una sola navata, con due cappelle laterali per lato. La parte degli stucchi, i cornicioni e gli altari sono settecenteschi e tutto quello che era rimasto di seicentesco, venne poi restaurato nel 1897.

Oggi la Chiesa di San Pier Piccolo ci appare senza la facciata, progettata da Giuseppe Castellucci nel 1933, che purtroppo è andata persa nel ’41 dopo un bombardamento. L’impianto è rimasto a navata unica, con decorazioni a stucco nel soffitto e nelle cappelle laterali, decorate con tavole d’ altare e affreschi, sia nelle volte che ai lati, risalenti ad epoche diverse, che mostrano un vero e proprio sedimento storico-artistico. Il Viviani, nel suo testo, “Arezzo e gli aretini”, parla di due opere molto interessanti, andate perse, un San Rocco e un San Raffaello del Vasari.

Tra i dipinti più antichi, possiamo vedere l’affresco con la Madonna col Bambino tra i Santi Girolamo e Giovanni Evangelista, attribuito ad un frate mariano e datato intorno al Quattrocento. Del secolo successivo invece, va segnalato un Bartolomeo della Gatta, raffigurante il Beato Filippo Bertoni, oggi in sacrestia. Del Seicento invece, troviamo le tele del Salvi di Castellucci, datati 1669 raffiguranti le Storie dei Santi Serviti e il Miracolo dei pani di San Filippo Benizi (1653) e la Samaritana al pozzo (1669).  Le ventotto lunette, del chiostro, raffiguranti la Vita e i Miracoli di S. Filippo Benizi, in gran parte sono dipinti sempre, da Salvi Castellucci con l’aiuto del figlio Piero e da Angelo Ricci, nel 1670.

Per quanto riguarda gli arredi liturgici della chiesa, il Viviani racconta di un vero e proprio «tesoro», una grande quantità di oggetti di valore, accumulati nel corso dei secoli, ma di cui oggi purtroppo, come lui stesso racconta nel suo libro :

 «di essi oggi non rimane che il … rammarico e il desiderio più vivo. Di ciò devono essere ringraziati i francesi in modo particolare, che nella indimenticabile giornata del 20 ottobre 1800, impadronitisi della città, tale fu il saccheggio a cui si abbandonarono dalle ore dieci della mattina fino a dopo l’Ave Maria della sera».

Bibliografia essenziale

U. Viviani, Arezzo e gli aretini, in «collana di pubblicazioni storiche e letterarie aretine», 2, Arezzo, 1921

Via degli Albergotti

(a cura di M. Lachi)

La via che collega Via Cesalpino a Corso Italia è chiamata Via degli Albergotti perché intitolata all’omonima famiglia aretina.

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Vi sono, secondo la maggior parte degli studiosi, valide ragioni per ritenere che la casata Albergotti, conosciuta come una delle più illustri famiglie della Toscana, fosse un ramo degli Ubertini. Certo risulta essere che questa famiglia di sangue robusto e mente sveglia e sottile, possedesse già prima del 1000 castelli intorno ad Arezzo. L’origine della famiglia Albergotti, infatti, viene fatta risalire al nobile aretino Albergotto, la cui consorteria era iscritta nell’albo di città fin dall’anno 1090. Tale Albergotto risulta esere figlio di un Martino che, come ricordano alcuni documenti dell’Archivio storico di Arezzo, donò alla Badia delle SS. Flora e Lucilla della città alcuni suoi terreni.

Albergotto nel 1089 fu nominato Senatore della Repubblica, mentre  suo  fratello Remondino, fu elevato alla dignità di cavaliere da Corradino di Svevia, Re di Sicilia, che egli accompagnò nel suo passaggio per Firenze.

Un altro membro della famiglia Albergotti, Nando di Beltrame è annoverato tra i deputati della pace che i guelfi avrebbero dovuto sottoscrivere con i ghibellini e, per tale missione, venne ricompensato con il «Cingolo militare» e una pensione. Uno dei figli di Naldo, poi, Marcellino, fedele seguace della parte guelfa, si alleò con i guelfi fiorentini e radunò ad Arezzo una gran folla di popolo minuto a lui fedele. Ma la città era dominata dai ghibellini che, insospettiti da tale radunata e sostenuti dall’imperatore Federico II, si coalizzarono per costringere il Vescovo alla deposizione.

Il valore e l’importanza della famiglia Albergotti non si fermano solo al mondo politico, ma abbracciano anche quello artistico e religioso. L’insigne letterato Giovanni Albergotti fu, infatti, noto alle scene come il consigliere di fiducia di Papa Gregorio XI e come Vescovo della città di Arezzo a partire dal 1370. Durante il suo ministero tentò la restaurazione della parte guelfa della città, ma la sorte gli fu contraria, poiché una massiccia rivolta popolare, sobillata quasi inaspettatamente contro di lui, lo costrinse a fuggire da Arezzo. Rifugiatosi a Roma, presso la Curia Vaticana, ricevette l’incarico di condurre la campagna militare che il Papa stava muovendo contro Galeazzo Visconti. Giovanni Albergotti si distinse in guerra per il suo grande coraggio e per la conquista della città di Vercelli e di alcuni territori e castelli circostanti.

Una volta nominato Cardinale, Giovanni Albergotti tornò ad Arezzo con l’intento di rinnovare il tentativo di restaurazione guelfa in città, ma, ancora una volta, il popolo, fedele alla sua immutata tradizione ghibellina, glielo impedì. Il Cardinale Giovanni morì, così, senza essere riuscito nella realizzazione del suo disegno di potere. La parte ghibellina della città, si dimostrò però, nel corso della storia, anche attenta alle necessità di governo e non sempre fanatica e vendicativa; fu, infatti, nominato consigliere e segretario del Vescovo ghibellino di Arezzo, Guido Tarlati di Pietramala, un tale Bico o Alberico degli Albergotti riconosciuto da tutti di parte guelfa.

Il figlio di Alberico degli Albergotti, Francesco, nato nel 1301, venne nominato insegnante di giurisprudenza nello Studio fiorentino insieme ai suoi figli, anch’essi insigni giureconsulti famosi per il loro sapere nelle scienze civili, politiche, militari ed ecclesiastiche.

Infine un altro discendente di questa famiglia, Ulisse, vissuto nel XVII secolo fu un famoso scienziato oppositore di Galileo Galilei con un Dialogo del 1613 che dimostrava la luminosità propria della luna, negando che le eclissi fossero l’effetto dell’allineamento di Terra, Luna e Sole.

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La famiglia degli Albergotti ebbe, inoltre, anche molti senatori e vari cavalieri degli Ordini di S. Stefano e di Malta e furono a più riprese patrizi di Arezzo, ricoprendo importanti cariche nelle magistrature cittadine, dal magnificus dominus magisteri passando per il priorato, fino alla carica di Rettore della Fraternita dei Laici.

Con il decreto del 19 gennaio 1756 venne riconosciuto agli Albergotti il patriziato aretino e i nobili della famiglia vivevano in un palazzo, oggi restaurato, che sorgeva lungo le antiche mura cittadine, nella seconda cerchia medioevale; una specie di casa- torre nel quartiere di Porta Burgi.


Bibliografia essenziale:

G. Nocentini, Antiche memorie nelle vie dei Arezzo, Helicon, Arezzo, 2003.

G. Nocentini, Le antiche famiglie di Arezzo, Helicon, Arezzo, 2000.