L’ Aretino, storia di un vizioso

    

                          (a cura di G.Narducci)

Pervertito. Genio. Intellettuale. Pornografo. Provocatore. Questi sono solo alcuni degli aggettivi che si possono sprecare quando guardiamo a una delle personalità più particolari e discusse di tutto il Cinquecento, sapete di chi sto parlando? Ma certo che lo sapete…lo so che sotto la voce “pervertito” vi sono venuti in mente tanti nomi, ma il personaggio di cui vi voglio raccontare oggi, non solo pornografo lo è stato davvero, ma fu uno dei primi in assoluto. Naturalmente mi riferisco a Pietro Aretino. 

Ma chi era l’Aretino? Di certo un immorale, un vizioso, un istigatore, ma anche un uomo di cultura e di successo. Personaggio complesso e controverso, capace di scrivere solo per polemizzare e non per compiacere qualcun altro. 

Nato ad Arezzo, vissuto a Roma e poi a Mantova, fece però di Venezia la sua casa, grazie soprattutto alla “libertà”veneziana e alle donne venete, così belle da fargli dimenticare gli amori omosessuali. Ma quello che oggi voglio raccontarvi, non è la stessa biografia, ma piuttosto una piccola curiosità che riguarda questo grande personaggio. Effettivamente grosso era grosso, famosissimo il ritratto eseguito per lui da Tiziano, ma l’Aretino possiede un particolare record, quello di aver scritto il primo libro pornografico. Eh si, il suo primato è questo, aver inventato questo nuovo genere letterario. 

Il primo libro di questo tipo furono i Sonetti lussuriosi, scritto a Roma nel 1525 e rappresentante il classico eccesso dell’Aretino. I Sonetti, sono legati indissolubilmente alla figura di Marcantonio Raimondi, in quanto aveva ricavato sedici incisioni dai disegni estremamente espliciti, definiti addirittura osceni, di Giulio Romano e per i quali, l’incisore venne sbattuto in carcere. L’Aretino intervenne e grazie alla popolarità che già possedeva, Raimondi fu liberato. Da qui vengono alla luce i Sonetti lussuriosi, nati come didascalia alle illustrazioni. La provocazione costò però allo scrittore l’allontanamento da Roma. Arrivò così a Venezia e proprio qui, lontano dall’Inquisizione romana, l’Aretino dette alla stampa il libro, condito di immagini e di versi osceni, il quale viene considerato oggi, il primo libro pornografico della storia. 

Non si conoscono i risultati commerciali dei Sonetti, ma considerando che poi quella corrente editoriale divenne fin da subito molto richiesta, possiamo immaginare come siano andate le cose. Dopo poco Pietro scrive il Ragionamento (1534) e il Dialogo (1536), fusi insieme nelle Sei giornate. Quello di cui parla l’Aretino è si l’amore, ma certo non quello spirituale, quanto quello fisico. Le sue donne non sono le gentil donne dall’animo gentile, ma sono donne che sanno usare il proprio corpo a proprio favore, tanto da dire che la «carriera, quella della cortigiana, è la più sicura e, in fondo, la più onesta». Proprio da qui vediamo il cosiddetto “dialogo puttanesco”, che altro non è che la parodia del dialogo amoroso tanto in voga nel XVI sec.  L’Aretino lo abbiamo detto è politicamente scorretto, quindi poi quando spiega al lettore come funziona il lavoro della prostituta, certo non si risparmia niente, nemmeno le scene sadomaso: «Lo facea porre in terra carpone e accomodatogli una cinta in bocca a modo di un ferro, salitagli a dosso, menando i calcagni, gli facea fare come faceva lui al suo cavallo». Non andiamo oltre, non certo per censura, ma perché infondo, certe letture è bene non svelarle troppo. 

 Le cortigiane diventano da qui le protagoniste delle piccole opere di cui l’Aretino è probabilmente l’ispiratore o il suggeritore, come per esempio la Zaffetta (1531) o il Ragionamento del Zoppino fatto frate e Ludovico puttaniere (1539).

Solo a Venezia però, tutto questo era possibile, senza finire in galera, anche se per tre secoli la sua opera ha vissuto un’esistenza sotterranea, conosciuta solo da bibliofili e pochi altri addetti. 

Un incontro con il gioiello

whatsapp-image-2017-01-14-at-15-12-48( a cura di M. Lachi)

Venerdì 13 gennaio si è tenuto, presso il Palazzo della Fraternita dei Laici di Arezzo, un incontro che ha visto la partecipazione del professor Pierangelo Mazzeschi, del professor Paolo Torriti e di alcuni degli artisti che hanno lavorato alle splendide realizzazioni esposte nella mostra “Nel segno di Piero. Dalla Vera Croce al gioiello”, aperta fino al 22 gennaio negli spazi espositivi del Palazzo.

Durante l’incontro il Primo Rettore della Fraternita dei Laici, il dottor Pier Luigi Rossi ha intervistato i docenti; la curatrice della mostra, nonché Rettrice di Fraternita, Daniela Galoppi; la storica dell’arte, Alice Comunelli e lo scultore, Lucio Minigrilli, artefici di alcuni dei gioielli che possiamo ammirare in mostra.

Il filo conduttore della giornata è stato l’imprescindibile legame che esiste tra la mente e la mano, legame di cui la mostra è evidente dimostrazione. La mente degli artisti ha, infatti, osservato attentamente le scene con cui Piero della Francesca ha affrescato la Cappella Bacci e la mano ha trasformato i concetti in gioielli di ammirabile fattezza. Come ha ricordato il professor Pierangelo Mazzeschi, lo stesso Piero, infatti, durante la sua vita non ha fatto distinzione fra mente e mano, ma ha creato un legame inscindibile tra i due elementi. Come riferisce il docente: “ Piero ha fatto del guado, commerciato dai suoi genitori, la base di uno dei colori che utilizzava nei suoi affreschi.”

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 L’intento della mostra e del master universitario, che ne è alla base, è infatti quello di far riscoprire alle nuove generazioni l’importanza di questo binomio vincente. “ Tornare a far vedere le mani che lavorano ” come ha sottolineato il dottor Pier Luigi Rossi durante le interviste. Proprio per questa ragione il Master in Storia e Design del gioiello, promosso dall’Università degli Studi di Siena, Campus Universitario di Arezzo, si prefigge l’intento di creare un percorso in cui gli iscritti possano al tempo stesso nutrire la mente, apprendendo la storia dell’oreficeria aretina, e mettere in pratica le capacità acquisite, creando dei gioielli unici e lavorando per i più importanti marchi della città.

A parlare di come la mano ha saputo concretizzare i concetti elaborati dalla mente sono stati gli stessi artisti. “ Il ciondolo, l’anello e i gemelli in argento rappresentano la scena del sogno di Costantino e riportano al mito platonico della caverna e al tentativo di uscire dal buio per conoscere la verità.” Così Lucio Minigrilli ha raccontato i suoi gioielli e ha espresso la soddisfazione provata nel realizzarli.

“Sono stata ispirata dai colori e dalle geometrie dei cappelli degli affreschi di Piero della Francesca” così Alice Comunelli ha dato vita alle sue splendide creazioni e così, attraverso la mente, la mani hanno saputo rendere tangibile un’emozione.

Questi sono solo alcuni estratti delle interviste che troverete, in versione completa, durante la trasmissione televisiva che andrà in onda tra pochi giorni su Teletruria e che vi racconterà lo splendore della mostra e l’importante lavoro svolto dal Master in Storia e design del Gioiello e dalla Fraternita dei Laici per promuovere la storia e bellezza della gioielleria aretina.

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Nel Segno di Piero. Dalla Vera Croce al gioiello

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( a cura di G. Narducci)

Nel giorno della Vigilia di Natale vi voglio proporre un gioco: se vi dico Piero della Francesca, cosa vi viene in mente? Vediamo, di getto penserete alla Madonna del Parto di Monterchi, ai soldati addormentati nella Resurrezione e ai tre personaggi in primo piano nella Flagellazione. In tantissimi si saranno subito ricordati di Federico da Montefeltro e al suo naso. I più romantici avranno pensato al pulviscolo che scende e che viene illuminato dalla luce di una finestra o alle madonne, con il loro sguardo rivolto sempre verso il basso. I più attenti ai dettagli, magari si saranno ricordati  della natura riflessa nella pozzanghera dietro ai piedi del Cristo, nel Battesimo o all’uovo che pende nella Pala di Brera. Naturalmente poi, in molti avranno associato il tutto alle lunghe file a San Francesco, per visitare la Leggenda della Vera Croce.

Ma oltre alle opere più famose, ai personaggi più familiari che l’artista rinascimentale ci ha fatto conoscere, se pensiamo a Piero ci vengono in mente le proporzioni perfette delle architetture, dei corpi e della natura, le linee geometriche che si fondono a quelle sinuose, la luce, il colore, le stoffe e i cappelli. Ecco a cosa si sono ispirati gli undici allievi del Master in Storia e Designer del Gioiello dell’Università di Siena, Dipartimento di Arezzo.

Nell’edizione 2016, il tema che i giovani creativi hanno dovuto sviluppare è stato proprio quello della Leggenda della Vera Croce, dipinta da Piero all’interno della Cappella Bacci della Chiesa di San Francesco di Arezzo. Come già affermato dal Prof. Paolo Torriti, coordinatore del master, durante la conferenza stampa precedente all’inaugurazione del 22 dicembre scorso :“Dopo l’omaggio a Piero delle edizioni di Oro d’autore del 1992 e del 2007, si è voluto con questo, seppur piccolo progetto, ricordare nel 2016 nuovamente il maestro di Borgo, proprio  seicento anni dalla presunta nascita”.

Gli undici giovani talenti, sono partiti dagli affreschi di Piero, prendendo in esame una scena o un particolare, fino a creare un vero e proprio progetto di gioiello. Ognuno di loro ha reinterpretato Piero, passando da tutto un ciclo creativo e produttivo che ha visto l’idea nascere e svilupparsi, procedendo dal disegno al prototipo. Quest’ultimo è stato poi creato all’interno delle aziende orafe aretine, che hanno ospitato i giovani nel periodo di stage di fine corso.

 

Il progetto e i gioielli, nati da questo studio sono adesso in mostra, all’interno della Fraternita dei Laici di Arezzo. La mostra, curata dal Prof. Paolo Torriti e da Daniela Galoppi, rettrice culturale di Fraternita, resterà aperta fino al 22 gennaio 2017. Come ci ha ricordato la Dott.ssa Galoppi, “Arezzo è la Città dell’Oro e deve riprendersi questo primato. Ciò però è possibile solo riscoprendosi come tale”.

La scelta della location inoltre è molto indicativa. Il palazzo di Fraternita infatti, posto nella piazza più rappresentativa della città, sente su di sé l’importante compito di parlare e trasmettere la cultura in tutto il territorio circostante. Come ha infatti affermato il Dottor Pier Luigi Rossi, Primo Rettore di Fraternita : “Il nostro Palazzo è un bellissimo involucro che ha il compito di contenere bellissimi contenuti”.

Sicuramente in questo caso ci sono riusciti. I contenuti infatti, sono molto interessanti come pure preziosi e non solo nei materiali, ma anche nel designer. Eleganti e intriganti, portano lo spettatore in una condizione attiva di ricerca, suscitando in lui un senso di curiosità.

L’allestimento della mostra porta il nome dell’Architetto Stefania Paci. Non di poco rilievo, il contributo dato da Giovanni Raspini.

Il Castello di Gargonza

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(a cura di M. Lachi)

Il Castello di Gargonza è una splendida testimonianza di borgo agricolo fortificato toscano e rappresenta, oggi, grazie ai suoi stertti vicoli, le sue mura con la porta duecentesca e la Chiesa romanica, una delle opere fortificate meglio conservate del territorio aretino.

Furono gli Ubertini a incastellare il primo nucleo di Gargonza su questo appartato colle appenninico in  Valdichiana, tenendolo a lungo legato alle sorti ghibelline di Arezzo.

Fra il 1302 e il 1304 a Gargonza si consuma l’ansia di riscatto politico-militare di Dante Alighieri, esule e condannato a morte, tutta inscritta nel suo primo disegno ideologico antibonifaciano per rientrare a Firenze, dove frattanto Carlo di Valois agiva pesantemente negli interessi del Caetani e dei Neri fiorentini. Nel borgo fortificato di Gargonza si riunirono dunque in assemblea permanente i fuoriusciti guelfi, con tutto lo stato maggiore dei Bianchi, Vieri de’ Cerchi, Lapo degli Uberti e altri esponenti della consorteria degli Ubertini, in un’ibrida alleanza coi ghibellini aretini e quelli banditi da Firenze molto tempo prima, che tuttavia garantivano assoluta lealtà e sostegno. In quell’ambiguità di un “accozzamento” opportunistico ci si spinse fino a “fare i conti avanti all’oste”, cioè a far piani un po’ avventati sulla conduzione di una guerra ancora tutta da intraprendere, e che si sarebbe rivelata lunga e rovinosa. Nel variegato quartier generale di Gargonza furono perfino preordinate «le modalità di resa dei Neri dopo una sconfitta data per certa, e infine un’eventuale riconciliazione, una volta ristabilito il circuito delle libertà democratiche in città» . Nonostante i primi successi nel recupero dei castelli di Piantravigne, Serravalle, Gaville e Ganghereto, i Neri riescono a recuperare alacremente terreno non solo grazie al voltafaccia di Carlino de’ Pazzi, che si vendette per una corruzione di 400 fiorini d’oro al neo-podestà fiorentino Gherardino da Gambara, ma anche per i timori in diversi municipi di un possibile rientro a Firenze dei vecchi ghibellini, oltre al sostanziale attendismo di quella strana intesa gargonziana, circostanze che permisero ai Neri di impadronirsi e occupare, già nel giugno del 1304, di tutte le cariche pubbliche fiorentine.

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Forti delle vittorie riportate, le armate fiorentine attaccarono nuovamente il castello di Gargonza nel 1307, il quale evitò la capitolazione solo alla grazie alla diffusione della notizia, falsa, dell’arrivo improvviso, da Roma verso Firenze, delle truppe del cardinal Orsini. E rimase ancora nella situazione di sostanziale legame con Arezzo fino al 1381, quando Giovanni degli Ubertini vendette il castello alla Repubblica di Siena, riscuotendo la cospicua somma di 4.000 fiorini d’oro. Finì così, nella liquidazione monetaria, come succedeva anche ai conti Guidi per altri loro castelli casentinesi e pistoiesi, il dominio di un’antica famiglia feudataria su uno dei castelli più importanti della Val di Chiana. Quattro anni più tardi, nel 1285, i Fiorentini, abilissimi nelle transazioni finanziarie per l’acquisto dei fondi toscani, si annetterono Gargonza definitivamente, che rimase d’ora in avanti legata alla città del Giglio.

Per circa mezzo secolo, la nuova situazione politica a Gargonza permise un considerevole sviluppo economico e un cospicuo inurbamento del borgo, finché la popolazione, forse troppo incline a simpatie senesi, insorse nel 1433 contro l’insoddisfacente conduzione fiorentina del feudo. L’intervento militare di Firenze fu durissimo fino al punto di distruggere quasi del tutto il castello, radendolo al suolo in gran parte delle abitazioni e delle mura, per non lasciare in piedi altro che il cassero e la torre merlata.

Alla metà del Cinquecento, in pieno periodo signorile, Gargonza è acquistata in livello da Giovanni della facoltosa famiglia dei Lotteringhi della Stufa, un ceppo gentilizio di provenienza germanica (Lotharingen) inurbatosi a Firenze nell’XI secolo, denominato così perché “proprietario” della stufa della chiesa di San Lorenzo a Firenze, di fronte alla quale si apre appunto via della Stufa e il bel palazzo bugnato omonimo. Antenati remoti degli attuali proprietari, i Guicciardini-Corsi-Salviati, i Lotteringhi la venderono nel 1727 ai concittadini Corsi, altro ricco casato fiorentino che nel frattempo a Napoli aveva acquistato il titolo di marchesi. Nonostante i Corsi dessero impulso alla trasformazione di Gargonza in una florida proprietà fondiaria, del tutto in linea con la caratteristica politica di bonifica e sviluppo agricolo del dispotismo illuminato granducale toscano, non fu evitato al castello una sostanziale decadenza e perifericità urbana.

Con i Patti agrari del 1950 e la fine del sistema mezzadrile in Toscana, Gargonza entra ulteriormente in stallo solo per essere rilanciata a partire dagli anni Settanta da Roberto Guicciardini Corsi Salviati, il quale l’ha sapientemente trasformata in un borgo-residence costituito da appartamenti, beds and breakfast e strutture turistiche dotate di ogni comfort di medio ed alto livello, collegato altresì in circuito a marchi storico-turistici di livello anche europeo. Il tutto contornato per giunta da uno scenario “medievale” immerso nel verde sempiterno dei cipressi, degli olivi, dei lecci e del bussolo; costituito fra l’altro dai resti delle mura, dal bel portale d’ingresso, dal cassero, nonché dalla torre merlata che domina la pianta ogivale del borgo di Gargonza.


R. Guicciardini Corsi Salviati, La rinascita di un borgo, 1972, Arezzo

 

San Domenico e il Crocifisso di Cimabue

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(a cura di G. Narducci)

Quando mi chiedono cosa c’è da vedere ad Arezzo, d’istinto, per prima cosa subito mi viene in mente Piero, con La leggenda della vera Croce. Quando invece mi chiedono cosa “fare”, consiglio di andare a cercare Vasari, per le chiese, i musei, i vicoli e le strade della città. Ma se mi chiedono dove andare, non ho mai dubbi, la mia risposta è sempre la solita, la Chiesa di San Domenico.

Non so perché in realtà. Forse per la sua piazza, mai troppo confusionaria, che invita con la sua pendenza ad entrare in chiesa, o forse per il senso di pace che mi trasmette ogni volta che ci entro. Qualunque sia il motivo, essa racchiude in sé un bellissimo spaccato di storia dell’arte del centro Italia.

La sua facciata, semplice ed essenziale, funge quasi da scrigno. Al suo interno infatti, l’unica navata presente, scandita dai colori domenicani, custodisce dei veri e propri capolavori della storia dell’arte italiana. Bellissimi infatti gli affreschi di Spinello Aretino e del figlio Parri di Spinello, che rivestono entrambe le pareti, il San Pietro martire di Giovanni della Robbia e il trittico attribuito al Maestro del Vescovado. Ma tra tutti, il principe indiscusso, il padrone della scena è il Crocifisso di Cimabue.

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Posizionato sopra l’altare maggiore e di dimensioni notevoli ( 336 x 267 cm), il crocifisso ligneo è stato datato tra il 1260 e il 1270. In quest’opera, possiamo vedere come, il giovane artista toscano, supera l’influsso bizantino e rende il suo Cristo non più trionfante sulla morte, ma sofferente sulla croce. Siamo davanti ad una vera e propria rivoluzione. Un cambiamento che poi verrà utilizzato e sviluppato successivamente anche dai più grandi artisti italiani. La linea del corpo e del viso nel Cristo di Cimabue, sono palesemente in tensione, esasperate quasi, attraverso un uso intenso del chiaroscuro, mentre il disegno minuzioso è reso morbido ed elegante soprattutto nel drappeggio del perizoma. Alle estremità della croce, le figure a mezzo busto dei dolenti, che appoggiano la testa sulla mano e con lo sguardo rivolto allo spettatore, cercano di coinvolgendolo nel pathos nella scena.

Il crocifisso di Arezzo è fratello, per così dire, di quello di Santa Croce a Firenze, danneggiato durante l’alluvione del 1966. Nel caso fiorentino però si può notare, come il corpo del Cristo sia più naturalistico e delicato, grazie anche alla scomparsa dei netti chiaroscuri, molto forti ed evidenti nella versione aretina.

La bellezza di San Domenico probabilmente non è tutta e solamente attribuibile ai suoi tesori e alle sue meraviglie, ma anche alla sua capacità di mostrarsi sempre come un luogo intimo e profondo. Questo vale non solo per chi va alla ricerca di un momento di pura spiritualità, ma anche e soprattutto, per tutti coloro i quali vogliono solo ammirare tanta grazia e bellezza.

Il Santuario di Santa Maria delle Vertighe

( a cura di M. Lachi)

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La tradizione popolare narra un avvenimento straordinario che sarebbe all’origine del culto dell’Assunta. Il 7 luglio dell’anno 1100 un’intera cappella, insieme alla sua venerata immagine, sarebbe traslata in cielo da Asciano fino al colle delle Vertighe, in seguito ad una lite tra due fratelli che se ne contendevano il possesso.

I dati storici relativi ad un documento del 1073 attestano, però, che la chiesa di Santa Maria era già esistente prima del 1100 e che era, infatti, posta vicino alla domus dove la contessa Beatrice, vedova del marchese di Toscana Bonifacio, e sua figlia Matilde si recavano per amministrare la giustizia.

Il Gamurrini ha, inoltre, sostenuto che la posizione della chiesa lasciasse intendere la sua costruzione su un preesistente tempio o edicola pagana secondo quella che era una prassi frequente dopo la diffusione della cristianità. Il colle delle Vertighe era, infatti, un punto nevralgico del tessuto stradale dell’epoca, un luogo frequentato e una zona abbastanza popolata durante tutto il Medioevo, tanto che proprio lì sorgevano altre due chiese, quella di San Cristoforo e quella di Sant’Angelo.

Quella che la tradizione chiama “cappella” è in realtà l’absidiola di una chiesa preesistente che è stata poi incorporata nella struttura odierna e che si trova vicino al coro. Nella sua nicchia era dipinta in grandezza quasi naturale, l’immagine della Madonna Assunta, alla quale era originariamente rivolta la devozione popolare che passò poi ad un’Assunta su tavola posta sull’altare maggiore della nuova chiesa e, infine, alla Madonna in trono raffigurata nel quadro del ‘200 di Margarito e Ristoro d’Arezzo, ancora oggi in venerazione.

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Fin dal 1228 la custodia della chiesa fu affidata all’ordine dei Camaldolesi e, probabilmente, a quel tempo risale il primo ampliamento della chiesa con la costruzione delle due navate. A fine ‘200, dove sorgeva la domus di Beatrice, era inoltre attivo lo spedale di Santa Maria, che avrebbe poi lasciato il posto all’attuale convento.

Nel 1326, dopo che le Vertighe erano state dichiarate prioria, l’abate di Agnano diede ai monaci il primo priore, don Chiarissimo del Viva, nobile aretino.

Nel luglio del 1487, papa Innocenzo VIII, unì il priorato delle Vertighe al monastero camaldolese di Santa Maria degli Angeli di Firenze e così rimase fino al 18 maggio 1543, quando papa Paolo III separò canonicamente Santa Maria degli Angeli dalle Vertighe e dichiarò il monastero delle Vertighe, abbazia sotto il titolo di Santa Maria e San Benedetto.

La chiesa fu interessata da lavori di una certa consistenza all’inizio del ‘500 e, poco dopo, nel 1530, fu posta su un altare della Chiesa una tela, oggi scomparsa, nella quale erano rappresentati la “Terra del Monte, ed in aria una nostra Donna, e dagli lati due santi” dipinta da Niccolò Soggi.

I camaldolesi lasciarono le Vertighe solo dopo la soppressione napoleonica del 1808 e, in seguito a ciò, vennero messi in vendita sia il convento che i poderi, i quali vennero acquistati da Carlotta Albergotti Siri, mentre il Comune otteneva il formale possesso della chiesa nel 1814.

Nel 1852 i frati minori della Toscana ottennero l’uso perpetuo del monastero; ma nel 1866 sopraggiunse, però, una nuova soppressione degli ordini religiosi e il monastero passò di nuovo in mano al Comune, il quale riuscì a reinsediarvi religiosi solo nel 1881.

Nel 1964 il padre Stanislao Doppioni ottenne dalla Sacra Congregazione dei Riti la proclamazione della Madonna delle Vertighe a celeste patrona dell’autostrada del Sole.

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La Chiesa del santuario delle Vertighe accoglie oggi turisti e fedeli con l’aspetto che assunse in seguito al suo ultimo restauro, quello del 1943. I lavori voluti e seguiti dall’architetto padre Franci, dell’ordine dei frati minori, ripristinarono alcuni elementi dell’edificio originario risalente al XVI secolo.

Al culmine di un suggestivo viale costeggiato da due filari di cipressi, una scalinata dà accesso alla semplice facciata a capanna con oculo. Sia lungo la facciata che lungo il fianco destro della Chiesa corre un loggiato a pilastri esagonali, che si apre con un portale architravato sul lato più lungo e che ripercorre il loggiato esterno che esisteva già dal XV secolo.  Al Sansovino è, invece, attribuito il campanile in pietra e mattoni rossi, costituito da una torre medievale a pianta quadrata con coronamento rinascimentale. All’interno, invece, la chiesa presenta una pianta basilicale, a tre navate scompartite da due file di colonne con capitelli ionici che sostengono archi a tutto sesto. La navata centrale è aperta da monofore e ha una copertura a capriate lignee. Le navate laterali sono coperte da un unico spiovente. In controfacciata, nell’oculo, troneggia la vetrata con la Traslazione della Sacra Cappella.


Bibliografia essenziale:

M. Aguzzi- R. Giulietti, Monte San Savino, un borgo toscano della Valdichiana, Icona, 2016

L. Carlieri, Breve ragguaglio storico sul celebre Santuario di Maria Santissima delle Vertighe.

Il porta fortuna degli innamorati: l’Albero d’Oro di Lucignano

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(a cura di G. Narducci)

In queste giornate piovose di novembre, abbiamo deciso di portarvi in un piccolo borgo toscano, il quale al suo interno custodisce un vero e proprio gioiello dell’oreficeria senese-aretina. Il Luogo in questione è Lucignano in Valdichiana, conosciutissimo per la Maggiolata, ma che si avvalora anche del titolo “Town of Love”. Vi starete chiedendo perché proprio Lucignano. Bene, ve lo spiego subito. Vedete, qui in questo piccolo centro che conta poco più di 3.500 anime è conservato un reliquiario unico al mondo che risponde a nomi diversi, come: “Albero di Lucignano”, “Albero della Vita”, “Albero d’Oro” e  “Albero dell’Amore”, in quanto propizio proprio agli innamorati.

Particolare è la storia di questo manufatto di oreficeria, infatti, come recita la lunga iscrizione che corre sul piede dell’Albero, l’inizio dell’opera risale al 1350, ma si è vista la conclusione solo nel 1471. Realizzato da Gabriello d’Antonio e Ugolino da Vieri, in circa centoventun anni, il reliquiario in questione, rappresenta uno dei rari esemplari di questa tipologia di manufatti fitoformi, rimasti fino a noi.

Composto da rame dorato, argento, smalti, coralli e cristalli di rocca, l’Albero è alto quasi tre metri e riflette nella sua tripartizione morfologica di “radice – tronco – chioma”, i tre diversi momenti della vita di Cristo quali “nascita – passione – gloria”, tipo di suddivisione già in uso dal 1260, attraverso il famoso Lignum vitae di Bonaventura da Bagnoregio.

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Al centro del “tronco”, si alza una teca a forma di tempietto gotico sul quale si innesta l’albero vero e proprio formato da dodici rami, sei per parte, decorati con foglie di vite, piccole teche e medaglioni, su cui sono incastonati dei rametti di corallo. Nei medaglioni possiamo vedere raffigurati in pergamena, le figure dei Profeti nella parte anteriore e dei personaggi del Nuovo Testamento nella parte posteriore, mentre nelle piccole teche trilobate, appese in coppia, si conservava un tempo delle reliquie francescane e delle schegge di legno, appartenenti come sempre nella tradizione, alla Croce della Passione. Nulla è casuale nella costruzione del reliquiario, tanto meno la simbologia numerica e cristologica. Il numero dei rami infatti, richiama quello degli apostoli, mentre le parti in corallo simboleggiano il sangue di Cristo. Continuando la nostra descrizione arriviamo alla vetta, in cui spiccano un Crocifisso e sopra di esso un Pellicano, ritratto nell’atto di beccarsi il petto per sfamare i propri piccoli. Il gesto dell’animale, che si ferisce versando il proprio sangue, richiama il sacrificio di Cristo e dell’atto d’amore compiuto per l’umanità.

Oggi conservato presso il Museo Comunale di Lucignano, precisamente nella Sala IV, ovvero la Sala delle Udienze, l’Albero era in precedenza custodito in un armadio di legno nella Chiesa di S. Francesco. Proprio lì, nella notte del 28 settembre 1914, il reliquiario fu trafugato. Venne ritrovato, smontato e in parte danneggiato, solo nel novembre del 1917, in una grotta nella zona di Sarteano, nella provincia di Siena.

L’ Albero d’Oro, o Albero dell’Amore è ancora oggi, visitato non solo dai turisti, ma anche da molti giovani sposi e fidanzati, i quali sono soliti scambiarsi promesse d’amore e giurarsi eterna fedeltà al suo cospetto. Infine vogliamo ricordare che il reliquiario è stato anche protagonista nel 2015 ad Expo e grazie a lui, Lucignano è stata denominata, come dicevamo all’inizio, “Town of Love”, poiché è stata capace di far innamorare anche il regista iraniano Abbas Kiarostami, il quale intorno alla leggenda del manufatto, ha scritto il suo film “Copia Conforme”, vincitore di riconoscimenti anche al Festival di Cannes nel 2010.

Via degli Ubertini

(a cura di M. Lachi)

Alla famiglia Ubertini è intitolata la strada aretina che collega via Malpigli a via Fiorentina; vediamo chi furono  e cosa rappresentarono per la storia di Arezzo i membri di questa importante famiglia che annoverò tra i suoi componenti il noto vescovo Guglielmino degli Ubertini, cinquantanovesimo vescovo di Arezzo che resse la diocesi e la città fra il 1248 e il 1289.

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La famiglia comitale degli Ubertini fu innanzitutto un’importante consorteria ghibellina toscana.

« Era quella famiglia, dopo che s’avea in un certo modo impadronita d’Arezzo, andata in guisa crescendo per lo valore del vescovo Guglielmino (il quale morì nimico di Castruccio) e per la sagacia e prudenza di Piero suo fratello (il quale essendo di maggior età e riputazione degli altri fratelli avea dietro la morte sua continuata quella grandezza) e per trovarsi la fiorentina Repubblica impacciata nelle guerre di Lucca, e nella lega di Lombardia, che era alla sua signoria pervenuta la Città di Castello, quella di Cagli, il Borgo a S. Sepolcro con tutte le sue castella, e quelle di Massa Trebara. Avea messo al fondo Neri della Fagiuola figliuolo d’Uguccione, i conti di Montefeltro, quelli di Montedoglio, il vescovo d’Arezzo con tutta la sua famiglia degli Ubertini; e in somma uscendo i termini di Toscana, e distesasi nella Marca, avea messo insieme un superbo e invidioso principato. »
(Scipione Ammirato, Istorie Fiorentine, Libro VIII, 1641)

Gli Ubertini, famiglia d’Arezzo di parte ghibellina, è nota alla storia come una tra le famiglie che più tenacemente ostacolarono la politica dei Fiorentini su Arezzo. Questi, infatti, si trovarono sempre a doversi scontrare, fino alla metà del XIV secolo, con i membri di tale casata, stretti in alleanza con i Tarlati di Pietramala, con gli Ubaldini e con i Pazzi del Valdarno.

Il nucleo originario della famiglia degli Ubertini faceva, con molta probabilità, capo a un certo Uberto o Ubertino e ai suoi discendenti, originari del Casentino; le testimonianze certe, però, non vanno più indietro del 1080 e lasciano aperti alcuni dubbi sulle origini di questa potente famiglia. Certo è che cominciarono la loro ascesa come boni homines nella valle dell’Archiano e del Sova.

Potendo godere della posizione di vassalli episcopali del vescovo di Arezzo, gli Ubertini andarono pian piano allargando la loro influenza e il loro potere, fino ad ottenere, nel 1049, metà della signoria sul castello di Montecchio Vesponi e, nel 1081, il permesso di fondare quello di Ragginopoli, oggi nel territorio del comune di Poppi.

Sul finire dell’XI secolo la famiglia Ubertini costruì una consorteria di parenti, affini, vassalli e clienti che dal 1223 permise loro di ampliare i propri domini ai castelli di Lierna a Poppi, Corezzo a Chiusi della Verna, Partina e Serravalle a Bibbiena ed espandersi nell’aretino a Gargonza a Monte San Savino e nel fiesolano acquisendo, tra gli altri, signoria sul Castello di Leona e su Gaville e Lucolena. Fu in seguito a queste imponenti manovre politiche che divennero definitivamente la famiglia Ubertini. Alla metà del XII secolo dominavano, inoltre, anche Montefatucchio a Chiusi della Verna, Gressa, Banzena, Marciano a Bibbiena e soprattutto Chitignano.

Ma a differenza dei conti Guidi non crearono una vera e propria signoria territoriale in Casentino e quando si inurbarono sia in Arezzo che in Firenze si concentrarono talmente sulla vita politica cittadina da non occuparsi di organizzare i propri possedimenti in una struttura politica compatta ed omogenea. D’ altra parte non erano neppure una famiglia in senso stretto ma una vera e propria gensdi parenti affiliati tra loro da intricati legami familiari e dunque senza un ramo principale e un capo famiglia carismatico. Una contingenza che si rivelò fatale quando nel 1280, per il rovescio delle fortune ghibelline, furono espulsi da Firenze e vennero successivamente sconfitti a Campaldino. Persero via via i loro castelli e domini o per manu militari dei Guidi o dei fiorentini e solo in pochi casi riuscirono a vendere qualche loro feudo alla Repubblica di Firenze.

Gli Ubertini furono particolarmente attivi dopo il 1260, quando, inorgogliti per la vittoria di Montaperti, si dettero a correre il contado, e nel penultimo decennio del sec. XIII, fino alla giornata di Campaldino. Dopo la scissione tra Bianchi e Neri, gli Ubertini, nel marzo del 1304, accolsero l’invito per la conciliazione del cardinale Da Prato; ma subito dopo, il 22 luglio, parteciparono al tentativo della Lastra, che portò per un istante, i fuorusciti fino nel cuore di Firenze. Ributtati dal contrattacco della borghesia mercantesca, si asserragliarono nei loro castelli, fino a che si sottomisero al duca di Atene.

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Sui primi del 1351 gli Ubertini parteciparono a Milano alla dieta ghibellina indetta dal vescovo e signore Giovanni Visconti, affiancandosi ancora una volta agli Ubaldini, ai Tarlati e ai Pazzi, ai quali si erano aggiunti il Castracani, i conti di Santafiora, i signori di Forlì, di Rimini, di Urbino, e i rappresentanti di Pisa: quando, il 28 luglio, Giovanni d’Oleggio mosse da Bologna per portare le insegne viscontee oltre l’Appennino, gli Ubertini, a scopo diversivo, uscirono in armi da Bibbiena contro i Guidi, i fedelissimi di Firenze. Conclusa la pace di Sarzana e verificatisi dissidi con i Tarlati, alcuni tra i più autorevoli membri della casata avvertirono l’ineluttabilità della capitolazione di Arezzo e la necessità di venire per tempo a un accordo con coloro che ne sarebbero stati padroni. Avvenne così che nel 1359 Biordo Ubertini si oppose, sotto l’insegna del giglio fiorentino, alla grande compagnia del conte Lando. Poco più tardi, nel 1360, Buoso Ubertini, vescovo di Arezzo, cedette a Firenze i diritti dell’arcivescovato su Bibbiena, che subito un altro della casa, Farinata, conquistò e consegnò alla detta città. La conclusione di questi atti cominciò a delinearsi nel 1365, quando Firenze prese in accomandigia alcuni della famiglia Ubertini e si ebbe in pieno nel 1385, quando, dopo che Firenze ebbe acquistato Arezzo dal condottiero angioino Coucy, tutta la casata trattò con la signoria fiorentina per una sistemazione definitiva. Azzo del fu Franceschino fu colui che trattò col Comune anche per gli altri del suo nome. Dal 1385 tutta la famiglia Ubertini fu, così, accolta definitivamente tra le guelfe, con i diritti relativi, tranne quello di avere uffici del Popolo e del Comune, dai quali l’escludeva l’essere, in origine, dei “grandi”.


Bibliografia essenziale

  • F. Paturzo, Arezzo medievale: la città e il suo territorio dalla fine del mondo antico al 1384, Cortona, Calosci, 2002
  • G. Nocentini, Antiche memorie nelle vie di Arezzo, Perugia, Edizioni Helicon, 2003

 

NOF4 e l’Ospedale Psichiatrico Ferri

 

 

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(a cura di G.Narducci)

Tutti preoccupati di dove passare Halloween, di presentarsi alla festa con il costume più spaventoso. Tutti ansiosi di avere paura. Ma veramente volete la paura? Veramente volete tremare? Davvero bramate i brividi lungo la schiena? Bene, allora vi raccontiamo di un luogo, che vi farà venire la pelle d’oca. Un posto davvero esistente. Una storia vera, perché solo quelle fanno veramente paura. Una storia in cui l’uomo è vittima e carnefice. Una storia in cui, non ci sono streghe e zucche vuote, ma comi indotti con l’insulina e scariche elettriche. Una storia in cui, se eri un povero sfortunato o una persona scomoda, ti rinchiudevano riducendoti ad un corpo usato per testare veleni e pillole, dove ogni contatto con l’esterno era vietato e il mondo, semplicemente si dimenticava della tua esistenza.

Ogni emozione di gioia, di felicità e di pace erano annientate. Tu, che per una serie di sfortunati eventi ti trovavi lì, eri costretto a subire in maniera passiva il buono e cattivo tempo di uomini, che fuori da ogni logica divina e buon senso, ti usavano come cavia, eliminando la tua condizione primaria di persona, di essere. Spogliato di tutto, diventavi un burattino nelle mani di persone senza anima, che all’odore della tua carne che bruciava a causa delle scariche elettriche non provava che piacere .

Fa paura vero?

Odio, rabbia, dolore. Ecco cosa traspare dal quello che rimane oggi dell’Ospedale Psichiatrico Ferri di Volterra. Nato a fine degli anni ’80 dell’Ottocento, come sezione per “Dementi” all’interno del ricovero di medicina dell’ex Convento di San Girolamo, già nei primi anni Novecento iniziò a registrare i primi segni di sviluppo, fino a diventare tra gli anni ‘50/’60, uno dei manicomi più grandi di Italia. Oltre centomila metri cubi di volume. Tre grandi sezioni, oggi in totale degrado.

Uno dei centri più grandi di Italia, con la possibilità di poter contenere fino a seimila (6.000 scritto in numeri forse fa più effetto), persone ricoverate contemporaneamente. Ricoverate. Ricoverate forse non è proprio giusto come termine. Detenute. Ecco si, 6.000 persone, spogliate del loro diritto di nascita, detenute, contemporaneamente. Il tutto distribuito in centomila metri cubi di volume, con 20 lavandini e 2 wc ogni 200 degenti. Il 40 % dei morti registrati, avveniva a causa di malattie trasmesse. Chissà perché.

Se non vi è preso un brivido pensando di dover dividere il bagno con altre 199 persone di media, ogni giorno, per anni e anni, allora siete dei duri. Ma non finisce mica qui.

Noi siamo abituati a comunicare continuamente, in ogni momento della giornata, in ogni istante, c’è chi lo fa anche quando dorme e chi, neanche in bagno si separa dal proprio smartphone. Riceviamo notifiche su notifiche, siamo quasi “drogati” di comunicazione. Ecco, proprio qui vi volevo.

Pensatevi chiusi in una stanza, con qualche ora di “aria” al giorno, opzione fattibile solo se site stati bravi e se siete stati considerati innocui.  Controllati a vista, con magari il vicino di panchina catatonico, con lo sguardo perso nel vuoto, mai una parola, mai un suono, mai un emozione, ma solo il movimento delle palpebre.

Tutto sempre se non eravate ritenuti pericolosi, perché allora in quel caso vi sareste trovati nella sezione giudiziaria, quindi non so quanta “aria”, vi sarebbe stata concessa. Comunque in ogni caso, da regolamento interno si legge che : “Gli infermieri non devono tenere relazioni con le famiglie dei malati, darne notizia, portarli fuori; nessuna lettera, né oggetti, ambasciate, saluti; né possono recare agli ammalati alcuna notizia dal di fuori, né oggetti, né stampe, né scritti…”.  In sostanza, se non eri matto, lo diventavi.

Adesso l’ex manicomio si presenta come un grosso complesso immerso nel verde, dove, tra le grate e dai vetri rotti delle finestre, l’edera si intreccia, come se la natura volesse depurare la terra da tutto quel male e quel dolore. I giovani Writers hanno riempito ogni stanza con murales, di cui alcuni anche interessanti. Qualche simpaticone invece, si è divertito a giocare con dei manichini, messi sdraiati sui lettini o seduti sulle sedie a rotelle, vestiti con giacche e camici bianchi. Chissà, magari pensavano di aumentare il pathos.

In tutto questo, tra le rovine e il degrado, una testimonianza rimane viva, tra le mura del Ferri. Le incisioni di un detenuto, un uomo che lì ci ha passato vent’anni della sua vita. Al secolo Nannetti Oreste Fernando, ma per i 280 metri complessivi di incisioni, semplicemente NOF4. Il 4 forse sta per il numero di matricola o per quello degli istituti in cui è stato rinchiuso. Questo probabilmente non lo sapremo mai, ma quello che sappiamo è che quest’uomo, autodefinitosi come “L’austronautico ingegnere minerario del sistema mentale”, ha lasciato ben 180 metri di incisioni nel muro esterno del Ferri e 102 metri, in un passamano in cemento di una delle scalinate dell’edificio. Un diario, una biografia, un insieme di parole, disegni, poesie incise nell’intonaco, con l’aiuto della fibbia della “divisa dei matti”.

Nato a Roma il 31 dicembre del 1927, ebbe fin da subito una vita difficile, prima in orfanotrofio, poi in manicomio. Ritenuto pericoloso dopo l’arresto con l’accusa di offesa a pubblico ufficiale, arrivò a Volterra nel 1958 e ci rimase fino alla morte, avvenuta nel ’94. Come molti altri, anche lui, rimase nella cittadina toscana anche dopo la legge Basaglia e chiusura del manicomio nel ’78. I suoi graffiti, in parte staccati dal comune di Volterra, per poterne salvaguardare la memoria e il valore artistico, sono stati riconosciuti come opera d’arte, appartenenti all’ Art Brut. Arte libera e spontanea, come la produzione pittorica dei bambini e degli alienati, dove graffiti scarabocchi e segni sui muri rappresentano l’essenza primitiva dell’espressione umana.

Tra i più famosi graffiti di NOF4, ci sono quelli della panchina, in cui il Nannetti lascia volontariamente la sagoma dei degenti catatonici, continuando a scrivere sopra le loro teste. Graffiti di difficile interpretazione i suoi, ma con una forte carica emotiva, in cui vengono raccontate storie di crudeltà gratuite e di crimini subiti. Testimonianza di ingiustizie, in cui solo il caso sembra abbia potuto scegliere la sorte, la posizione, il ruolo che faceva la differenza tra l’essere la vittima o il carnefice.

In un luogo in cui l’elettroshock era all’ordine del giorno, in cui alle finestre vi erano le grate e le persone erano solo dei numeri di matricola, la testimonianza di NOF4 ci dimostra come, quando tutto ti è negato, quando non sei più padrone della tua vita e non puoi comunicare con l’esterno, l’arte e la scrittura diventano lo sfogo e l’unica possibilità di poter mantenere uno stralcio di umanità, che altri uomini come te, ti hanno tolto.

Il Corridoio Vasariano

( a cura di M. Lachi)

Il Corridoio Vasariano, conosciuto anche come Percorso del Principe, è uno dei tragitti più inusuali e ambiti della nostra Firenze. Messo a punto e collaudato nel 1997 per iniziativa congiunta della municipalità fiorentina e del Ministero dei beni culturali,  è un percorso di circa un chilometro che segue la strada dei musei immergendosi nell’arte e nella storia della città. Non esiste nulla di paragonabile in nessuna città della vecchia Europa.

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Il percorso ha inizio con il Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, opera massima di Giorgio Vasari, in cui risuona tutta la figura di Cosimo de’ Medici e, attraversando una parte sospesa su Via Ninna, prosegue fino ad arrivare alla Galleria degli Uffizi. Questa parte del corridoio vede esposte le statue archeologiche e si snoda tra le sale aperte sui testi supremi della pittura, mentre a destra si scorgono la cupola del Brunelleschi, la Torre di Arnolfo, i tetti e i campanili della città, lo scorcio su Piazza della Signoria e della loggia dell’Orcagna con le sculture, la fontana e il Granduca a cavallo. Una volta all’interno del palazzo degli Uffizi, al primo piano della Galleria, l’ingresso al passaggio si trova dietro ad un portone quasi anonimo. Probabilmente la maggior parte dei visitatori che affollano ogni giorno le sale degli Uffizi ignora del tutto che dietro ad un accesso così semplice si nasconda, invece, un grande tesoro.

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Il Passaggio del principe venne realizzato nel 1565, in meno di cinque mesi, su progetto di Giorgio Vasari mentre l’allestimento espositivo che è oggi visibile, corrisponde grossomodo a quello studiato nel 1973 dall’allora direttore della Galleria degli Uffizi. Alle pareti del Corridoio sono, infatti, appesi numerosi dipinti di autori italiani risalenti a un periodo storico che va dal XVI al XVII secolo. Il passaggio conserva, inoltre, la più grande e completa collezione europea di autoritratti di artisti, da Andrea del Sarto a Chagall a Guttuso, iniziata dal Cardinal Leopoldo de’ Medici nel XVII secolo. Tante altre opere ed autoritratti sono oggi ancora in attesa di trovare una collocazione all’interno del Corridoio.

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Poco dopo l’ingresso, l’atmosfera quasi magica del Corridoio si interrompe per alcuni metri, quando ci si trova ad attraversare il tratto che venne gravemente danneggiato da un attentato di stampo mafioso. Nella notte tra il 26 ed il 27 Maggio 1993, infatti, un’auto carica di esplosivo fu fatta scoppiare nei pressi della Torre dei Pulci, tra via Lambertesca e via de’ Georgofili e cinque persone persero la vita. Vi furono molti feriti e gravi danni alle abitazioni, così come alla Galleria degli Uffizi ed al Corridoio Vasariano. Nel Corridoio la deflagrazione fece saltare alcune tele, causando danni irreparabili alle opere. I quadri sono stati in seguito ricomposti, per quanto possibile, e intenzionalmente ricollocati al loro posto originario, in memoria di quella terribile strage.

Oltrepassato questo tratto del Corridoio, che ricorda una pagina triste, ma senz’altro importante nella memoria di Firenze, la visita prosegue alla scoperta della storia meno recente del  passaggio.
Una delle cose che più colpiscono, oltre alla piacevolezza delle opere che vi sono esposte, è la posizione sopraelevata ed assolutamente privilegiata del Corridoio, che consente di attraversare alcuni dei punti più belli del centro storico di Firenze, camminando in pratica sulle teste dei fiorentini e dei turisti in strada. In alcuni tratti del Corridoio la sensazione quasi di spiare le persone in strada è ancora maggiore grazie ai piccoli affacci e finestre, che guardano sia sul lato del centro storico sia sul fiume Arno. Doveva in effetti essere questo uno dei fini del Corridoio nell’intento dei Medici: potersi spostare liberamente dalla loro residenza a Palazzo Vecchio in assoluta discrezione e sicurezza, osservando l’esterno senza esser notati.

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Nel punto centrale in cui il Corridoio attraversa il Ponte Vecchio si apre uno degli affacci panoramici più belli di tutto il percorso. In questa parte, infatti, nel 1939 Benito Mussolini fece realizzare delle grandi finestre panoramiche che consentissero una splendida vista sull’ Arno verso il Ponte di Santa Trinita. Le aperture furono create in occasione di una visita ufficiale di Adolf Hitler, il quale rimase talmente colpito dalla vista su Ponte Vecchio, che ordinò di risparmiarne la distruzione nel corso della Seconda Guerra Mondiale.

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Oltrepassato l’Arno si trova un’ennesima curiosità del Corridoio: l’affaccio sulla Chiesa di Santa Felicita. Sulla destra, lungo il passaggio, si apre, infatti, una grande finestra con grate di ferro ed un balcone che si affacciano direttamente sull’interno della Chiesa. Si dice che da qui i Medici assistessero alla Messa, potendo contare ancora una volta su una postazione privata e privilegiata, che consentiva loro di non mischiarsi col popolo.

Lo splendido percorso museale moderno del Corridoio Vasariano termina a lato della famosa Grotta del Buontalenti, nel giardino di Boboli.

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Un po’ di storia

Il Corridoio Vasariano fu realizzato da Giorigio Vasari nel 1565 su richiesta di Cosimo I de’ Medici, in occasione del matrimonio del figlio Francesco I con Giovanna d’ Austria. Il passaggio, iniziato nel Marzo del 1565 fu terminato in soli 5 mesi, in tempo per le nozze che furono celebrate il 16 Dicembre dello stesso anno. Grazie a questo percorso sopraelevato i Medici si garantirono la possibilità di spostarsi liberamente ed in tutta sicurezza tra la loro residenza in Palazzo Pitti e la sede del Governo in Palazzo Vecchio.

Il progetto originale del Vasari prevedeva delle piccole finestre e degli affacci sulle strade sottostanti il passaggio e sull’Arno. A questo proposito furono tempestivamente spostate da Ponte Vecchio le botteghe dei macellai, che non offrivano uno spettacolo e degli odori adatti al passaggio dei Granduchi e dei loro ospiti. Al loro posto furono collocate le botteghe degli orafi, che ancora oggi caratterizzano il ponte più famoso di Firenze.

Per realizzare il Corridoio, furono letteralmente attraversate alcune delle case torri che si trovavano lungo il percorso e tutti i proprietari degli edifici dettero il loro consenso all’attraversamento delle loro case, eccetto la famiglia Mannelli, che si oppose fermamente. Il Vasari dovette, perciò, aggirare l’ostacolo deviando il percorso del Corridoio, che passa infatti attorno alla Torre.

All’incirca per i primi 200 anni il Corridoio Vasariano fu utilizzato esclusivamente come passaggio tra le residenze. Il percorso, per quanto fosse lungo solo circa un chilometro, veniva attraversato, con molta probabilità, con una piccola carrozzella, adibita al trasporto di due persone. Lungo il passaggio è, inoltre, immaginabile che vi fossero panchine e sedute per riposare.

Con l’arrivo dei Lorena ed il testamento dell’Elettrice Palatina Anna Maria Luisa de’ Medici gli Uffizi divennero un luogo pubblico e anche il Corridoio perse la sua funzione di passaggio privato. Nel corso dei secoli, purtroppo, sono andati perduti anche alcuni ambienti del Corridoio. In particolare durante la Seconda Guerra Mondiale, a causa dei bombardamenti, il Corridoio ha subito diversi danni: è andato perduto ad esempio un bel bagno decorato con affreschi ed elementi in marmo ed è stato distrutto, ma poi in questo caso ricostruito, il collegamento finale del passaggio con la sponda sinistra dell’ Arno.

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C. Caneva, Il Corridoio Vasariano agli Uffizi, Silvana Editoriale, Firenze, 2002.