Nel Segno di Piero. Dalla Vera Croce al gioiello

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( a cura di G. Narducci)

Nel giorno della Vigilia di Natale vi voglio proporre un gioco: se vi dico Piero della Francesca, cosa vi viene in mente? Vediamo, di getto penserete alla Madonna del Parto di Monterchi, ai soldati addormentati nella Resurrezione e ai tre personaggi in primo piano nella Flagellazione. In tantissimi si saranno subito ricordati di Federico da Montefeltro e al suo naso. I più romantici avranno pensato al pulviscolo che scende e che viene illuminato dalla luce di una finestra o alle madonne, con il loro sguardo rivolto sempre verso il basso. I più attenti ai dettagli, magari si saranno ricordati  della natura riflessa nella pozzanghera dietro ai piedi del Cristo, nel Battesimo o all’uovo che pende nella Pala di Brera. Naturalmente poi, in molti avranno associato il tutto alle lunghe file a San Francesco, per visitare la Leggenda della Vera Croce.

Ma oltre alle opere più famose, ai personaggi più familiari che l’artista rinascimentale ci ha fatto conoscere, se pensiamo a Piero ci vengono in mente le proporzioni perfette delle architetture, dei corpi e della natura, le linee geometriche che si fondono a quelle sinuose, la luce, il colore, le stoffe e i cappelli. Ecco a cosa si sono ispirati gli undici allievi del Master in Storia e Designer del Gioiello dell’Università di Siena, Dipartimento di Arezzo.

Nell’edizione 2016, il tema che i giovani creativi hanno dovuto sviluppare è stato proprio quello della Leggenda della Vera Croce, dipinta da Piero all’interno della Cappella Bacci della Chiesa di San Francesco di Arezzo. Come già affermato dal Prof. Paolo Torriti, coordinatore del master, durante la conferenza stampa precedente all’inaugurazione del 22 dicembre scorso :“Dopo l’omaggio a Piero delle edizioni di Oro d’autore del 1992 e del 2007, si è voluto con questo, seppur piccolo progetto, ricordare nel 2016 nuovamente il maestro di Borgo, proprio  seicento anni dalla presunta nascita”.

Gli undici giovani talenti, sono partiti dagli affreschi di Piero, prendendo in esame una scena o un particolare, fino a creare un vero e proprio progetto di gioiello. Ognuno di loro ha reinterpretato Piero, passando da tutto un ciclo creativo e produttivo che ha visto l’idea nascere e svilupparsi, procedendo dal disegno al prototipo. Quest’ultimo è stato poi creato all’interno delle aziende orafe aretine, che hanno ospitato i giovani nel periodo di stage di fine corso.

 

Il progetto e i gioielli, nati da questo studio sono adesso in mostra, all’interno della Fraternita dei Laici di Arezzo. La mostra, curata dal Prof. Paolo Torriti e da Daniela Galoppi, rettrice culturale di Fraternita, resterà aperta fino al 22 gennaio 2017. Come ci ha ricordato la Dott.ssa Galoppi, “Arezzo è la Città dell’Oro e deve riprendersi questo primato. Ciò però è possibile solo riscoprendosi come tale”.

La scelta della location inoltre è molto indicativa. Il palazzo di Fraternita infatti, posto nella piazza più rappresentativa della città, sente su di sé l’importante compito di parlare e trasmettere la cultura in tutto il territorio circostante. Come ha infatti affermato il Dottor Pier Luigi Rossi, Primo Rettore di Fraternita : “Il nostro Palazzo è un bellissimo involucro che ha il compito di contenere bellissimi contenuti”.

Sicuramente in questo caso ci sono riusciti. I contenuti infatti, sono molto interessanti come pure preziosi e non solo nei materiali, ma anche nel designer. Eleganti e intriganti, portano lo spettatore in una condizione attiva di ricerca, suscitando in lui un senso di curiosità.

L’allestimento della mostra porta il nome dell’Architetto Stefania Paci. Non di poco rilievo, il contributo dato da Giovanni Raspini.

Il Castello di Gargonza

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(a cura di M. Lachi)

Il Castello di Gargonza è una splendida testimonianza di borgo agricolo fortificato toscano e rappresenta, oggi, grazie ai suoi stertti vicoli, le sue mura con la porta duecentesca e la Chiesa romanica, una delle opere fortificate meglio conservate del territorio aretino.

Furono gli Ubertini a incastellare il primo nucleo di Gargonza su questo appartato colle appenninico in  Valdichiana, tenendolo a lungo legato alle sorti ghibelline di Arezzo.

Fra il 1302 e il 1304 a Gargonza si consuma l’ansia di riscatto politico-militare di Dante Alighieri, esule e condannato a morte, tutta inscritta nel suo primo disegno ideologico antibonifaciano per rientrare a Firenze, dove frattanto Carlo di Valois agiva pesantemente negli interessi del Caetani e dei Neri fiorentini. Nel borgo fortificato di Gargonza si riunirono dunque in assemblea permanente i fuoriusciti guelfi, con tutto lo stato maggiore dei Bianchi, Vieri de’ Cerchi, Lapo degli Uberti e altri esponenti della consorteria degli Ubertini, in un’ibrida alleanza coi ghibellini aretini e quelli banditi da Firenze molto tempo prima, che tuttavia garantivano assoluta lealtà e sostegno. In quell’ambiguità di un “accozzamento” opportunistico ci si spinse fino a “fare i conti avanti all’oste”, cioè a far piani un po’ avventati sulla conduzione di una guerra ancora tutta da intraprendere, e che si sarebbe rivelata lunga e rovinosa. Nel variegato quartier generale di Gargonza furono perfino preordinate «le modalità di resa dei Neri dopo una sconfitta data per certa, e infine un’eventuale riconciliazione, una volta ristabilito il circuito delle libertà democratiche in città» . Nonostante i primi successi nel recupero dei castelli di Piantravigne, Serravalle, Gaville e Ganghereto, i Neri riescono a recuperare alacremente terreno non solo grazie al voltafaccia di Carlino de’ Pazzi, che si vendette per una corruzione di 400 fiorini d’oro al neo-podestà fiorentino Gherardino da Gambara, ma anche per i timori in diversi municipi di un possibile rientro a Firenze dei vecchi ghibellini, oltre al sostanziale attendismo di quella strana intesa gargonziana, circostanze che permisero ai Neri di impadronirsi e occupare, già nel giugno del 1304, di tutte le cariche pubbliche fiorentine.

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Forti delle vittorie riportate, le armate fiorentine attaccarono nuovamente il castello di Gargonza nel 1307, il quale evitò la capitolazione solo alla grazie alla diffusione della notizia, falsa, dell’arrivo improvviso, da Roma verso Firenze, delle truppe del cardinal Orsini. E rimase ancora nella situazione di sostanziale legame con Arezzo fino al 1381, quando Giovanni degli Ubertini vendette il castello alla Repubblica di Siena, riscuotendo la cospicua somma di 4.000 fiorini d’oro. Finì così, nella liquidazione monetaria, come succedeva anche ai conti Guidi per altri loro castelli casentinesi e pistoiesi, il dominio di un’antica famiglia feudataria su uno dei castelli più importanti della Val di Chiana. Quattro anni più tardi, nel 1285, i Fiorentini, abilissimi nelle transazioni finanziarie per l’acquisto dei fondi toscani, si annetterono Gargonza definitivamente, che rimase d’ora in avanti legata alla città del Giglio.

Per circa mezzo secolo, la nuova situazione politica a Gargonza permise un considerevole sviluppo economico e un cospicuo inurbamento del borgo, finché la popolazione, forse troppo incline a simpatie senesi, insorse nel 1433 contro l’insoddisfacente conduzione fiorentina del feudo. L’intervento militare di Firenze fu durissimo fino al punto di distruggere quasi del tutto il castello, radendolo al suolo in gran parte delle abitazioni e delle mura, per non lasciare in piedi altro che il cassero e la torre merlata.

Alla metà del Cinquecento, in pieno periodo signorile, Gargonza è acquistata in livello da Giovanni della facoltosa famiglia dei Lotteringhi della Stufa, un ceppo gentilizio di provenienza germanica (Lotharingen) inurbatosi a Firenze nell’XI secolo, denominato così perché “proprietario” della stufa della chiesa di San Lorenzo a Firenze, di fronte alla quale si apre appunto via della Stufa e il bel palazzo bugnato omonimo. Antenati remoti degli attuali proprietari, i Guicciardini-Corsi-Salviati, i Lotteringhi la venderono nel 1727 ai concittadini Corsi, altro ricco casato fiorentino che nel frattempo a Napoli aveva acquistato il titolo di marchesi. Nonostante i Corsi dessero impulso alla trasformazione di Gargonza in una florida proprietà fondiaria, del tutto in linea con la caratteristica politica di bonifica e sviluppo agricolo del dispotismo illuminato granducale toscano, non fu evitato al castello una sostanziale decadenza e perifericità urbana.

Con i Patti agrari del 1950 e la fine del sistema mezzadrile in Toscana, Gargonza entra ulteriormente in stallo solo per essere rilanciata a partire dagli anni Settanta da Roberto Guicciardini Corsi Salviati, il quale l’ha sapientemente trasformata in un borgo-residence costituito da appartamenti, beds and breakfast e strutture turistiche dotate di ogni comfort di medio ed alto livello, collegato altresì in circuito a marchi storico-turistici di livello anche europeo. Il tutto contornato per giunta da uno scenario “medievale” immerso nel verde sempiterno dei cipressi, degli olivi, dei lecci e del bussolo; costituito fra l’altro dai resti delle mura, dal bel portale d’ingresso, dal cassero, nonché dalla torre merlata che domina la pianta ogivale del borgo di Gargonza.


R. Guicciardini Corsi Salviati, La rinascita di un borgo, 1972, Arezzo

 

San Domenico e il Crocifisso di Cimabue

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(a cura di G. Narducci)

Quando mi chiedono cosa c’è da vedere ad Arezzo, d’istinto, per prima cosa subito mi viene in mente Piero, con La leggenda della vera Croce. Quando invece mi chiedono cosa “fare”, consiglio di andare a cercare Vasari, per le chiese, i musei, i vicoli e le strade della città. Ma se mi chiedono dove andare, non ho mai dubbi, la mia risposta è sempre la solita, la Chiesa di San Domenico.

Non so perché in realtà. Forse per la sua piazza, mai troppo confusionaria, che invita con la sua pendenza ad entrare in chiesa, o forse per il senso di pace che mi trasmette ogni volta che ci entro. Qualunque sia il motivo, essa racchiude in sé un bellissimo spaccato di storia dell’arte del centro Italia.

La sua facciata, semplice ed essenziale, funge quasi da scrigno. Al suo interno infatti, l’unica navata presente, scandita dai colori domenicani, custodisce dei veri e propri capolavori della storia dell’arte italiana. Bellissimi infatti gli affreschi di Spinello Aretino e del figlio Parri di Spinello, che rivestono entrambe le pareti, il San Pietro martire di Giovanni della Robbia e il trittico attribuito al Maestro del Vescovado. Ma tra tutti, il principe indiscusso, il padrone della scena è il Crocifisso di Cimabue.

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Posizionato sopra l’altare maggiore e di dimensioni notevoli ( 336 x 267 cm), il crocifisso ligneo è stato datato tra il 1260 e il 1270. In quest’opera, possiamo vedere come, il giovane artista toscano, supera l’influsso bizantino e rende il suo Cristo non più trionfante sulla morte, ma sofferente sulla croce. Siamo davanti ad una vera e propria rivoluzione. Un cambiamento che poi verrà utilizzato e sviluppato successivamente anche dai più grandi artisti italiani. La linea del corpo e del viso nel Cristo di Cimabue, sono palesemente in tensione, esasperate quasi, attraverso un uso intenso del chiaroscuro, mentre il disegno minuzioso è reso morbido ed elegante soprattutto nel drappeggio del perizoma. Alle estremità della croce, le figure a mezzo busto dei dolenti, che appoggiano la testa sulla mano e con lo sguardo rivolto allo spettatore, cercano di coinvolgendolo nel pathos nella scena.

Il crocifisso di Arezzo è fratello, per così dire, di quello di Santa Croce a Firenze, danneggiato durante l’alluvione del 1966. Nel caso fiorentino però si può notare, come il corpo del Cristo sia più naturalistico e delicato, grazie anche alla scomparsa dei netti chiaroscuri, molto forti ed evidenti nella versione aretina.

La bellezza di San Domenico probabilmente non è tutta e solamente attribuibile ai suoi tesori e alle sue meraviglie, ma anche alla sua capacità di mostrarsi sempre come un luogo intimo e profondo. Questo vale non solo per chi va alla ricerca di un momento di pura spiritualità, ma anche e soprattutto, per tutti coloro i quali vogliono solo ammirare tanta grazia e bellezza.