A spasso tra le Pievi di Arezzo

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Pieve di Santa Maria

La chiesa di Santa Maria della Pieve si trova nel cuore del centro storico di Arezzo ed è posta tra Corso Italia, sul quale prospetta la facciata, e Piazza Grande, su cui, invece, offre l’abside.

Costruita a cavallo tra i secoli IX-XI, i primi documenti in cui veniva citata la Pieve risalgono addirittura al 1008, fatto che fa presupporre che già in quell’epoca il culto aretino della Madonna fosse così forte da dedicarle una chiesa. La Pieve di Santa Maria è stata sottoposta, nel corse dei secoli, a diverse modifiche, a partire da quella effettuata tra il XII e il XIII secolo, quando la facciata venne completamente rifatta in stile pisano-lucchese. Fu, invece, nel 1330 che venne terminata la torre campanaria che ancora vediamo; mentre tra i secoli XIV-XV la chiesa venne ornata con affreschi, in seguito distrutti o perduti, e con innumerevoli cappelle (fonti attestano che ce ne fossero ben 27 nel 1390). Lo stesso Vasari, dal 1559 al 1564, eseguì alcuni lavori relativi all’altare e al coro. Nel 1862 la Pieve, a causa di alcuni problemi di stabilità, venne sottoposta ad un restauro curato da Battisti Ristori, il quale, però, non si preoccupò di preservare e recuperare gli affreschi e le opere architettoniche del passato.

La facciata oggi visibile è ancora quella costruita nella prima metà del XIII secolo. Questa venne appoggiata alla precedente come elemento architettonico a sé stante e ciò si può notare dal fatto che non è presente il doppio spessore nelle pareti perimetrali come, invece, possiedono le chiese delle altre città toscane ad essa contemporanee.

Nella parte inferiore della facciata, si aprono tre portali strombati tra i quali quello centrale, presenta la lunetta dov’è scolpita la Madonna e l’archivolto con le raffigurazioni simboliche dei dodici mesi dell’anno collegate alle attività agricole che scandivano il calendario. Nell’architrave, inoltre, è presente il nome dell’artista, Marchio, e l’anno 1216; mentre nella lunetta del portale destro c’è un bassorilievo raffigurante il Battesimo di Gesù e in quella del portale sinistro c’è un bassorilievo con tralci di vite e grappoli d’uva.  Su questo ordine inferiore si appoggia un loggiato a tre ordini animato da esili colonne diverse per forma e per numero in ciascuno dei piani. Le tre logge sorrette dalle colonnine si suddividono nelle due inferiori che sono ad arco e nella la terza che è, invece, ad architrave. Il coronamento della facciata è privo di timpano. L’abside semicircolare, decorata con arcate cieche a tutto sesto e monofore per dare luce all’interno e alla cripta, e il fianco sud sono, invece, rifacimenti dell’800, ad esclusione del portale di via di Seteria dove è possibile ammirare un bassorilievo risalente ai secoli IX-XI con una trama fatta di croci greche, foglie e grappoli che si avvicendano. All’angolo tra il fianco sud della Pieve e la facciata si erge, rafforzato con un contrafforte il campanile alto 59 metri comunemente detta dei cento buchi per le bifore, dieci per ogni lato, disposte su cinque ordini sovrapposti.

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L’interno è a tre navate, con grandi arcate romanico-gotiche poggianti su robuste colonne e pilastri; il soffitto è a capriate di legno decorate e, nella parete interna della facciata, sulla sinistra del portale centrale si può osservare un movimentato bassorilievo marmoreo raffigurante l’Adorazione dei Magi, di artista ignoto e risalente all’XI-XII secolo. Nella navata di destra è posto il fonte battesimale, opera del XIV secolo di Giovanni d’Agostino, mentre nella quarta campata si può vedere l’occhio scolpito. Il presbiterio è la parte più antica della Pieve e, infatti, in esso sono preservate le tracce del vecchio edificio di culto. Il capitello del primo pilastro ha quattordici teste incoronate e dotate di baffi, poi ci sono altri capitelli e le arcate a pieno centro. Sul pilastro di sinistra è presente l’affresco rappresentante San Francesco e San Domenico, attribuito ad Andrea di Nerio. Nella galleria, edificata nel 1300, sono presenti poi dodici bifore.

L’altare maggiore custodisce lo splendido Polittico dell’artista senese Pietro Lorenzetti, eseguito per conto del vescovo Tarlati.

In fondo alla navata di sinistra spicca la Croce attribuita a Margarito d’Arezzo, mentre a metà è posizionata la cappella del Santissimo Sacramento; di seguto è un Crocifisso ligneo cinquecentesco e, sotto di esso, in una nicchia, è ospitata una statua lignea raffigurante Santa Lucia. Quasi in fondo alla navata è collocato un bassorilievo marmoreo del XIII secolo raffigurante il Presepio, proveniente dalla Valdichiana.

La navata centrale è ampia e maestosa. La cripta è stata rifatta nell’800 dall’ingegnere garzi di Arezzo su disegno dell’architetto Falcini di Firenze, ma si allontana molto da quella originaria. Presenta cinque navate e custodisce, dietro l’altare, il Busto reliquiario di San Donato martire e vescovo di Arezzo. Sulla parete di sinistra è invece conservata un’urna in legno della seconda metà del ‘500 contenente i resti mortali di un beato camaldolese, e, nella parte destra, una vetrina protegge l’immagine della Vergine addolorata.

 

Pieve di S. Eugenia al Bagnoro

Fuori dalla città di Arezzo, a circa due chilometri sud-est dal centro cittadino, si estende una splendida vallata, la località Bagnoro, già frequentata in epoca preistorica. Alcuni studiosi ritengono che il nome Bagnoro provenga dal termine classico balneum aureum, mentre altre fonti sostengono che, con più probabilità, il toponimo originario sia stato Bagnolo, dal classico balneum balneolum. In epoca paleocristiana, al centro della valle del Bagnoro fu costruita, su un edificio pagano preesistente, la chiesa battesimale di S. Eugenia, che diventò Pieve solo nei secoli successivi.

La Pieve di S. Eugenia, nella sua struttura architettonica odierna, fu costruita nell’Alto Medioevo. L’interno era costituito da tre navate, con cinque campate e archi a ferro di cavallo; le finestre erano ampie e intorno all’altare maggiore era stato rialzato un recinto riservato ai sacerdoti. La Pieve non aveva né cripta né campanile.

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In epoca romanica la facciata fu sottoposta a diversi intervanti e nella prima campata della navata di sinistra fu costruito un nuovo fonte battesimale. Nel XV secolo vennero eseguiti svariati lavori: fu edificato il campanile a torre, le pareti delle Pieve vennero decorate con affreschi e fu realizzato un bassorilievo. Nel XVI secolo tutta la valle si era innalzata di oltre due metri a causa del frequente ripetersi di inondazioni, così l’edificio subì gravi danni alluvionali al punto che il livello originario del pavimento fu soggetto allo stesso innalzamento fino all’equipararsi di quest’ultimo con la valle circostante.

Fu dopo la metà del Cinquecento che la Pieve venne imbiancata e pavimentata, che vennero chiusi gli archi con una muratura per il sostegno e che la navata di sinistra fu adibita a cimitero e quella di destra a canonica. Durante i lavori venne comunque salvato l’originario edificio paleocristiano, ancora oggi visibile come unico esempio in tutta la provincia aretina.

All’inizio del XX secolo vennero eseguiti piccoli lavori di restauro, ma solo nel 1970 la Soprintendenza di Arezzo compì importanti e minuziosi lavori di ripristino e recupero della Pieve.

Scendendo la scalinata di accesso, sulla destra, emerge dal suolo una costruzione circolare appartenente all’edifico pagano precedente alla costruzione della Pieve. In epoca pagana era una struttura adibita al culto delle acque mentre in epoca cristiana venne utilizzata come fonte battesimale per immersione. Superando la porta antica dell’originaria facciata, sulla sinistra è situato il basamento ottagonale del fonte battesimale per abluzione utilizzato in epoca romana.

Sotto al campanile, costruito nel XV secolo, si trova absidiola rafforzata. Nella parete absidale ci sono tre monofore, due laterali a semplice strombo e una centrale a doppio strombo, molto strette e molto differenti dalle monofore poste sui lati della navata centrale, ampie e senza strombature. Nell’attuale facciata del XVI secolo, sopra la porta d’ingresso, è presente una lunetta in pietra su cui è raffigurata la Madonna col Bambino, S. Eugenia e S. Lorenzo.

La pianta della Pieve di S. Eugenia è a tre navate con ampio transetto e tre absidi; la copertura è a capriate lignee le pareti della navata centrale presentano una forte pendenza, al punto da sfiorare, in alcuni punti, i settanta centimetri.

Nella parete destra del transetto è esposto l’unico affresco che la Pieve conserva: una Madonna col Bambino di autore ignoto databile agli inizi del Quattrocento.

Pieve di S. Paolo in Sanpolo

A pochi chilometri dalla città di Arezzo sorge la Pieve dedicata alla Conversione di S. Paolo. Questa Pieve conserva importanti resti etrusco-romani. L’abside, vista dall’esterno con campanile quattrocentesco, è una mirabile simbiosi tra architettura religiosa e necessità dalla vita quotidiana.

Davanti alla facciata si trova il cimitero settecentesco con al centro il monumento ai caduti della prima Guerra Mondiale e tutt’intorno una siepe di bosso.

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Sulla facciata interna è rappresentata in terracotta l’Apparizione, opera di Giuseppe Mariotti. Sulla cantoria, invece, si trova il grande organo ottocentesco dei Paoli, rimesso in funzione quando, nel 2000, l’intero edificio venne restaurato. Ai lati delle navate, oltre le belle tele dipinte e le copie delle specchiere settecentesche, spiccano i due grandi altari provenienti dagli accessi alla Cappella Bacci della Basilica di S. Francesco di Arezzo, con La morte di Cristo di Giacinto Brandi e Le Stimmate di S. Francesco alla Verna di Giuseppe Santini.

L’altare maggiore in una cornice di noce e abete, racchiude la bellissima statua della Madonna col Bambino in terracotta dipinta attribuibile a Jacopo Tatti.

Gli affreschi quattrocenteschi sono opera di pittori della scuola di Piero della Francesca, mentre il San Giovanni Gualberto, secondo alcuni studiosi potrebbe attribuirsi allo stesso Piero. Le figure affrescate, oltre ai fatti biblici, rivelano una serie di personaggi dalla spiccata personalità della tradizione cristiana. Il fonte battesimale è ricavato in un capitello romano in pietra con foglie di acanto.

A sinistra dell’ingresso si trova una cappella denominata del Morto, in riferimento alla presenza del cranio di S. Desiderio, o dell’Angelo Custode per la statua in terracotta del 1500.

La sacrestia, oltre al pozzo con l’acqua dalle qualità galatofore, è sede del Museo del Santuario. Poco sopra si trova la Casa del Cappellano de La Madonna, edificio coevo alla chiesa con la sala a pianterreno, il soffitto a finestrelle decorate ed il monumentale camino in pietra del 1500.     


Bibliografia essenziale

M. Mercantini, La nostra Pieve, Atti e memoria della Accademia Petrarca di lettere, arti e scienze, Nuova serie, n. 28-29, Arezzo, 1940.

A. Tafi, Le antiche pievi: madri vegliarde del popolo aretino, Calosci, Cortona, 1998.

 

Il Saracino e i suoi Quartieri

( a cura di M. Lachi)

La Giostra del Saracino nacque come antico gioco cavalleresco praticato ad Arezzo in epoca medievale. La rievocazione, che si rifaceva agli antichi tornei corsi fin dal Secolo XIII, cadde poi in disuso in età moderna e venne riscoperta durante gli anni del Fascismo quando, su proposta della Brigata Aretina Amici dei Monumenti, vennero riesumati gli antichi quartieri medievali con i loro relativi stemmi. La prima edizione della rinata Giostra del Saracino venne organizzata in poche settimane e si svolse il 7 agosto 1931, giorno di San Donato, nella splendida cornice di Piazza Grande. I rioni che corsero la prima Giostra furono: Porta Burgi, Porta Crocifera, Porta Fori, Porta Santo Spirito e Saionenella[1].

Nel 1932, dopo varie vicissitudini, i quattro rioni cittadini di Porta Crucifera, Porta Sant’Andrea, Porta Santo Spirito e Porta del Foro assunsero il titolo di Società di Quartiere e vennero inquadrati all’interno dell’Opera Nazionale Dopolavoro, delegati a gestire attività sportive, tempo libero e assistenza. Fu, poi, assestato lo scenario di Piazza Grande e arricchito il corteo di nuovi personaggi; venne, inoltre, compiuta una vasta azione promozionale che, unitamente alle opere di sistemazione della manifestazione, rese la Giostra definitivamente consolidata già a partire dal 1932.

Ancora oggi il Saracino viene corso in Piazza Grande e vi partecipano i quattro quartieri in cui è, odiernamente, suddivisa la città: Quartiere di Porta Crucifera, Quartiere di Porta Sant’Andrea, Quartiere di Porta Santo Spirito e Quartiere di Porta del Foro.

1932 - 1935  Schieramento (F_C_ Chimera)

Il territorio del quartiere di Porta Crucifera si estende nel settore nord-est della città, zona comunemente chiamata Colcitrone, da qui, infatti, anche il nome con cui spesso viene fatto riferimento al quartiere. Lo stemma del quartiere è suddiviso in due parti: una di colore verde e l’altra di colore rosso. Nella metà verde sono rappresentati i tre colli d’oro che raffigurano Colcitrone, mentre in quella di color rosso è riprodotta la Pieve di Santa Maria affiancata da due torri.
Al Quartiere appartengono le casate di città dei Bacci, dei Bostoli, dei Brandaglia e dei Pescioni e le casate del contado dei Conti di Montedoglio e dei Nobili della Faggiuola. Il santo protettore di Porta Crucifera è San Martino. Nel territorio di Porta Crucifera, oltre a piazza Grande sono collocate anche la Basilica di San Francesco, la Cattedrale e la Fortezza medicea.
Il motto del quartiere è: Excelsior crux, maior gloria.

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Porta del Foro  copre il territorio che  si estende nel settore nord-ovest della città. Il quartiere è anche chiamato San Lorentino per riferimento alla porta della città presente nella zona di competenza del quartiere. L’emblema di Porta del Foro è di colore cremisi su cui è raffigurata la Chimera di Arezzo di color oro. Al Quartiere appartengono le casate di città dei Grinti di Catenaia, dei Sassoli, dei Tarlati di Pietramala e degli Ubertini e le casate del contado dei Cattani della Chiassa e dei Conti Guidi di Romena. I santi protettori di Porta del Foro sono San Lorentino e San Pergentino. Nel territorio del quartiere di Porta del Foro sono ubicati la chiesa della Santissima Annunziata, il Museo statale d’arte medievale e moderna, la casa-museo di Giorgio Vasari, la Basilica di San Domenico con il Crocifisso di Cimabue e la chiesa della Badia.
Il motto del quartiere è: Tria capita, una mens.

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Il territorio del quartiere di Porta Sant’Andrea si estende nel settore sud-est della città. L’emblema del quartiere è di colore verde e su di esso è rappresentata la croce di Sant’Andrea di color argento. Al quartiere appartengono le casate di città dei Conti di Bivignano, dei Guillichini, dei Lambardi da Mammi e dei Testi e le casate del contado dei Barbolani Conti di Montauto e dei Marchesi del Monte Santa Maria. Il protettore è Sant’Andrea Guasconi.
Nel territorio del quartiere si trovano il Museo archeologico Mecenate, l’Anfiteatro Romano e la chiesa di Sant’Agostino.
Il motto del quartiere è: Divus Andreas superior discedit.

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Porta Santo Spirito copre il territorio che  si estende nel settore sud-ovest della città. Il quartiere, prima conosciuto come Porta del Borgo, viene oggi chiamato anche della Colombina per l’immagine con cui viene individuato lo Spirito Santo.
L’emblema del quartiere è di colore azzurro e vede rappresentati un ponte a tre archi e una cinta muraria sormontati dalla colomba dello Spirito Santo raggiante d’oro.
Al quartiere appartengono le casate di città degli Albergotti, degli Azzi, dei Camaiani e dei Guasconi e le casate del contado dei Pazzi del Valdarno e dei Tolomei del Calcione. Il santo protettore è San Jacopo.
Il motto del quartiere è: Con antico ardore.

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[1] Il Rione di Saione, uno dei protagonisti della prima Giostra dell’età contemporanea, non può essere collocato fra gli antichi quartieri medievali perché si trovava fuori dalle mura antiche, in quella che oggi definiremmo periferia. La sua, infatti, non fu una riesumazione, ma una costituzione forzata per rimpiazzare il quartiere di Porta Sant’Andrea, non ancora costituito nel 1931.


P. Vannuccini, L. Della Nesta Arezzo una città, una storia: la Giostra del Saracino: Arezzo a city: the Saracen Joust , Dimensione Communications, Arezzo, 1997

R. Parnetti , E vidi correr giostra: Arezzo e la giostra del Saracino, Gruppo Genesi Editoriale, Roma, 2006

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a cura di M. Lachi

L’araldo è la voce della Giostra del Saracino. Il suo ruolo è, infatti, quello di annunciare tutte le fasi salienti della manifestazione. Durante il corteo storico per le strade della città legge il Bando e, mentre gli armati incedono sulla lizza, chiama al campo tutte le rappresentanze della Giostra. In Piazza Grande, al termine dello schieramento degli armati, è l’araldo a recitare la Disfida di Buratto ed è sempre lui che, con particolare timbro di voce, annuncia il succedersi dei giostratori sulla lizza. A gran voce e con una singolare capacità di anticipare la gioia o il dolore dei quartieristi, annuncia i punteggi conseguiti da ciascun giostratore nell’impatto contro il Buratto. L’araldo comunica, in Piazza, anche qualsiasi altra disposizione impartita dal Maestro di Campo, dalla Magistratura o dalla Giuria. La figura dell’araldo ha, però, una storia molto antica e un’importanza da non dimenticare.

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Nell’antica Grecia, infatti, l’ufficio dell’araldo rispondeva, da un lato alla necessità di mantenere,  per mezzo di un intermediario inviolabile, il contatto con popoli diversi, anche nemici, creando, quindi, la possibilità di relazioni che il diritto comune avrebbe reso difficili o avrebbe, addirittura, escluso; dall’altra assolveva al bisogno di rendere solenni tutte le forme che il rito religioso e quello pubblico ritenevano essenziali, e in modo particolare, dava, a quegli atti che dovevano essere annunziati a tutti, una chiara forma di pubblicità mediante il bando.

Agli araldi erano affidati uffici di varia natura negli atti della vita di tutti i giorni e nei più delicati rapporti fra stati, a servizio della polis e delle comunità a essa sottoposte, o anche dei privati. Reverenza religiosa e necessità di reciprocanza facevano scrupolosamente osservare l’inviolabilità dell’araldo. «Divini» e «cari a Zeus» sono gli epiteti con cui  li designa Omero. «La voce dell’araldo è la voce comune della patria» dice, ancora, Demostene. Il segno tangibile del loro ufficio pubblico e inviolabile era lo scettro che li contraddistingueva. Gli araldi, infatti, accompagnavano le missioni diplomatiche e, a volte erano delegati essi stessi di svolgere un incarico ufficiale, che poteva essere quello di ricevere un consenso, o un atto di ossequio, di riscuotere un tributo, di stipulare un armistizio, di dichiarar la guerra.

Altri compiti dell’araldo erano, inoltre, quello di convocare  il popolo perché prendesse parte alle assemblee pubbliche e, durante queste ultime, si preoccupava di mantenere l’ordine imponendo il silenzio sotto gli ordini del presidente, di pronunziare le rituali maledizioni contro i traditori, di leggere l’ordine del giorno e di invitare i cittadini a parlare con la formula pronunciando una formula fissa.

Erano, inoltre, gli araldi quelli che introducevano i rappresentanti degli altri Stati e che proclamavano i risultati delle elezioni a sorte e delle votazioni.

Per mezzo del bando dell’araldo il magistrato faceva conoscere a tutti i cittadini i suoi ordini, così come il generale, sempre tramite la voce dell’araldo rendeva noti i suoi comandi. Oltre a ciò, addirittura la vendita o l’affitto, eseguiti per mezzo degli araldi, garantivano la regolarità del negozio e la buona fede dei contraenti.

Il primo requisito dell’araldo era una voce chiara e sonora. Alcune epigrafi ci informano che accanto alle più consuete e conosciute gare di corsa, di pugilato e di canto corale vi erano anche le gare di araldi dove vinceva chi dava prova di miglior voce. Aristotele nella sua Politica annovera, fra gli inconvenienti di una città troppo grande, quello che non tutti i cittadini, riuniti nell’assemblea, potevano udire la voce dell’araldo e comprenderne le comunicazioni.

Il modo di elezione e la durata dell’ufficio dell’araldo variava da città a città; in alcuni casi poteva essere a vita e, in altri, diventare persino ereditario.

Le fonti non permettono di precisare se, come si è dubitato, potesse essere araldo uno schiavo pubblico; certo è che in Atene gli araldi erano cittadini con pieni diritti politici e civili; si esigeva da loro un’ineccepibile condotta morale e si annetteva al loro ufficio una responsabilità che andava oltre la materiale proclamazione del bando; tanto che potevano, infatti, esser puniti se il bando era contrario alle leggi. In altre città, invece, all’ufficio dell’araldo si accompagnava una parziale limitazione di diritti.

Il XV secolo fu il periodo di crisi della figura dell’araldo; a ciò contribuì, senza dubbio, il diritto che venne accordato ad un capitano di media importanza di avvalersi dei servigi di un cavalcatore. Questa misura, infatti, comportò la moltiplicazione degli apprendisti, talora reclutati tra persone ritenute spesso indegne di questo ufficio. Il vero e proprio declino, però, dell’araldo fu nel corso del XVI secolo a causa di un insieme di fattori, fra i quali il principale fu il passaggio dal sistema feudale allo stato moderno che trasferì tutti i poteri al monarca e sottrasse alla nobiltà il suo carattere militare. Questo fenomeno andò ampliandosi durante il XVII secolo e l’araldo perse, così, le sue prerogative principali.

Il ruolo dell’araldo scomparse definitivamente nel 1615, anno in cui venne creata la carica dei giudici d’armi. Nel 1627 anche il collegio araldico francese perse la sua indipendenza e venne inserito nella struttura della casa reale. Poco più tardi furono messe in discussione anche le funzioni militari degli araldi:Luigi XIII sarà, infatti, l’ultimo re di Francia a circondarsi di araldi durante la Guerra dei Trent’anni. Infine il ruolo di maestri di cerimonie sarà sottratto agli araldi dall’introduzione degli ambasciatori e l’ufficiale d’armi, ridotto ad un semplice elemento della pompa imperiale e monarchica, restò in vita in Francia fino al 1830.

Dopo quell’epoca gli uffici propriamente araldici passarono ai consiglieri giudici d’arme ed ai genealogisti di corte, quelli cerimoniali ai maestri di cerimonia.


Bibliografia Essenziale

R. Parnetti, E vidi correr giostra: Arezzo e la giostra del Saracino, Gruppo Genesi Editoriale, Roma, 2006.

P. Léveque, La civiltà greca, Einaudi, Torino, 2002.

 

Un prezioso strumento musicale: l’organo

 

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L’organo è uno strumento musicale antichissimo. La prima notizia che se ne ha, infatti, è relativa ad un organo greco del III secolo a.C. Dalle fonti risulta che quest’ultimo fosse un organo già molto evoluto, dal momento che sembra avesse vari registri e un’estesa tastiera, oltre al fatto che era, con molta probabilità, alimentato da aria compressa attraverso un particolare sistema idraulico.

È, inoltre, noto che i bizantini usavano l’organo durante le festività pubbliche. Il primo esemplare d’organo giunto in occidente fu, probabilmente, quello che venne donato dall’imperatore d’oriente Costantino V, nel 757, al re dei franchi Pipino il Breve.

Fu, invece, durante il medioevo che l’organo, divenne lo strumento liturgico per eccellenza. Si trattava, all’epoca, di uno strumento di piccole dimensioni, con una sola serie di canne e con la tastiera costituita da leve. Solo nel X secolo la tastiera assunse una forma simile a quella odierna e fu introdotta la pedaliera; mentre nel secolo successivo gli organari toscani aumentarono l’estensione dello strumento fino a quattro ottave e introdussero i primi registri.

Oltre agli organi delle cattedrali, dotati di grandi canne e di enormi mantici, per il cui funzionamento erano impiegate decine di persone, vennero costruiti organi di dimensioni assai più ridotte: l’organo Portativo, così detto così perché facilmente trasportabile, che si suonava con la mano destra, mentre la sinistra azionava un piccolo mantice o l’organo Positivo, poco più grande di quello Portativo, che veniva suonato con due mani, mentre un’altra persona era addetta al mantice. Gli organi italiani del XVI e del XVII secolo continuarono, invece, ad essere di proporzioni abbastanza contenute e con una sola tastiera e un solo corpo.

Nei paesi del nord Europa, invece, soprattutto nella Germania del nord, si affermarono i primi organi con più tastiere e con i vari corpi separati e la pedaliera si estese notevolmente acquistando un’importanza crescente .

L’Ottocento vide il tentavo di costruire un organo in grado di produrre sonorità orchestrali e vennero introdotti, a questo scopo, nuovi registri e la cassa espressiva che, superando la dinamica a scalini fino allora in uso, permetteva di graduare il suono in crescendo e in diminuendo. Nella seconda metà dell’Ottocento, poi, fu introdotta la trasmissione elettrica dalla tastiera al somiere e, per l’alimentazione dell’aria, si adottarono ventilatori azionati da un motore elettrico.

Durante il nostro secolo si sono, invece, sviluppate due tendenze: la prima tesa a riportare l’organo all’originaria purezza di timbro, rinunciando alle velleità sinfoniche di tipo romantico, sottolineata soprattutto dall’esigenza di eseguire la musica degli antichi maestri su strumenti dell’epoca o su strumenti con caratteristiche tecniche e timbriche analoghe a quelle degli organi per cui era stata concepita; la seconda che vede nella ricerca di nuovi spazi acustici ed espressivi il futuro di questo strumento, anche attraverso l’introduzione di tecnologie digitali nell’arte organaria.

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La città di Arezzo possiede molti organi, considerati con ragione degli strumenti di un valore e di un’importanza unici. Il più bello è prezioso è l’organo ubicato nell’Abbazia delle S.S. Flora e Lucilla. Quest’ultimo è stato realizzato nel XVI secolo e appariva in tutto il suo splendore fino a quando non fu occultato alla vista dei fedeli dall’altare vasariano, trasportato dalla Pieve aretina. I pochi e purissimi registri di cui è composto rappresentano la perfetta sintesi finale di un secolare cammino tutto italiano e rinascimentale, imbevuto dell’ansia di perfezione tipica di quei secoli. L’altro straordinario organo della città di Arezzo è quello del Duomo i cui primi dati documentari risalgono addirittura alla seconda metà del ‘400. Questo strumento spicca per la sua grandiosità all’interno della navata e, seppur pesantemente ricostruito nella sua parte fonica, costituisce sempre uno dei principali esempi di organo risalenti al Rinascimento italiano. Anche i secoli successivi videro la creazione di organi ritenuti dei veri e propri capolavori. Il grandioso organo della SS. Annunziata, ad esempio, fu costruito nel 1849 dal grande organaro Michelangelo Paoli e, con la sua ricchissima tavolozza di colori, rappresenta pienamente il gusto musicale dell’Ottocento italiano, dominato dalle forme e dalle sonorità dell’Opera. Ma quasi ogni chiesa della città e della provincia di Arezzo presenta delle gemme che andrebbero conosciute e valorizzate. Ne sono un esempio l’organo del 1900 di Demetrio Bruschi, nella chiesa di S. Anastasio; l’organo di Onofrio Bruschi del 1903 a Petrognano; l’organo di Giuseppe Paoli a Pratantico del 1882 e quello meraviglioso del 1819 di Michelangelo Paoli nella chiesa di S. Zeno.


F. Paturzo, Un’arte dimenticata: gli antichi organi dell’aretino; in Bollettino d’Informazione della Brigata aretina Amici dei Monumenti; n.67; pp. 59-60.

F. Paturzo, Un gioiello aretino appena restaurato: l’organo del Santuario della Madonna del Giuncheto; in Bollettino d’Informazione della Brigata aretina Amici dei Monumenti; n.72; pp. 45-46.

Scandire il tempo in città: l’Orologio di Fraternita

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(a cura di M. Lachi)

Fu durante il periodo dei Comuni dell’Alto Medioevo che nacque la necessità, per i gruppi sociali organizzati, di scandire il tempo. Agli inizi del 1300 vennero, infatti, costruiti i primi orologi da torre per uso pubblico, nati con lo scopo di rispondere all’esigenza dei lavoratori, di sapere che ora fosse in un’epoca in cui nessuno possedeva un orologio personale. Nel Rinascimento la maggior parte delle città italiane si dotò di monumentali orologi pubblici e anche Arezzo, a partire dal XV secolo, ebbe ben due orologi per scandire il tempo della sua popolazione. La Torre Comunale della città vide, infatti, la costruzione di un primo orologio, provvisto di campana e di quadrante dipinto, già intorno al 1400. Le sorti dell’orologio, però, non furono fortunate e questo, in seguito alla sua rottura, venne sostituito nel 1478 con un nuovo orologio, che resistette, però, soltanto fino al 1518, anno in cui venne montato il terzo orologio sulla Torre Comunale. L’altro orologio che scandiva il tempo della città era quello del palazzetto della Fraternita dei Laici in Pizza Grande. Di questo orologio non è mai stato possibile tracciare la storia, ma venne senz’altro sostituito nella metà del XVI secolo con uno nuovo, costruito grazie all’utilizzo di una parte del lascito di Mariotto Cofani. Nel momento in cui venne stabilito l’allargamento del palazzetto di Fraterntita, i Rettori ritennero opportuno anche arricchirlo con un nuovo campanile, che sostituisse quello antico e che fosse capace di alloggiare al suo interno una campana più grande della precedente assieme ad altre due, poste lateralmente. Durante i lavori venne, inoltre, costruito uno stanzino apposito che potesse contenere il meccanismo del nuovo e più complesso orologio.

Nel 1549, il Maestro Antonio di Guglielmo di Antonio de Emporio venne incaricato della costruzione muraria del campanile secondo il disegno di Giorgio Vasari, al quale era stata assegnata la direzione dei lavori. I Rettori della Fraternita, dopo un anno dall’inizio dei lavori, nel settembre 1550, affidarono a un certo Felice di Salvatore da Fossato, maestro fabbro orologiaio, la progettazione, la costruzione e il montaggio in funzione di un orologio che si adattasse alla caratteristiche del contenitore e che rispondesse alla volontà di avere tre campane all’interno del campanile.

meccanismo-orologioFelice da Fossato portò avanti i lavori rispettando con rigore le indicazioni dei Rettori e realizzò la parte meccanica nei tempi di consegna previsti, ma si trovò in difficoltà con l’esecuzione della parte esterna a causa della negligenza con cui gli altri artigiani stavano lavorando alla facciata.  L’orologio fu così costretto a chiedere un rinvio della consegna dell’opera dall’autunno alla primavera dell’anno successivo. Nella primavera del 1552, data incisa insieme alla firma di Felice da Fossato, in un ramo alto del lato nord del castello dell’orologio, avvenne il montaggio definitivo e il collaudo dell’Orologio e del moto della luna. 126771489L’orologio del palazzetto di Fraternita venne così chiamato perché era anche una macchina astronomica che veniva azionata dalla stessa forza peso che faceva muovere le lancette delle ore.

L’orologio mantiene, ancora oggi, dopo ben quattro secoli, le sue funzioni specifiche e alcuni sapienti restauri nei meccanismi originali, hanno permesso sentire tuttora i suoi rintocchi. È azionato da una ricarica manuale giornaliera che, grazie all’azionamento di corde e contrappesi, ne conserva il moto perpetuo. Il restauro, avvenuto nel 1998, ha garantito il ripristino della macchina e della parte astronomica; mentre quello del dicembre 2002 ha riportato la funzionalità delle tre campane che con il loro suono accompagnano allo scadere del quarto d’ora il movimento della lancetta oraria. La campana centrale, che risale al 1578, suona le ore di 6 in 6 e ripete il suono alla mezza; la piccola campana di sinistra, del 1300, suona invece una volta ai quarti, due volte ai tre e quattro/quarti e la campana di destra, risalente al 1551, accompagna la prima ogni quarto. Inoltre, un interessante sistema di meridiane, posto all’interno e all’esterno del vano che ospita l’orologio, permette di scoprire come avvenisse in passato il riassestamento annuale dell’orologio.

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F. Casi, Orologio e moto della luna della Fraternita dei Laici di Arezzo, in Bollettino d’informazione, 2008, pp. 23-40

Adolfo De Carolis e gli “Uomini Illustri” di Arezzo

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 (a cura di G. Narducci)

Pittore, incisore, illustratore, xilografo e fotografo Adolfo del Carolis, nacque il 6 gennaio 1874 in provincia di Ascoli Piceno. Fu allievo di D. Ferri, all’accademia di Belle Arti di Bologna, frequentò a Roma la scuola di decorazione pittorica del Museo artistico industriale, sotto la guida di Alessandro Morani e di Domenico Bruschi ed entrò nell’orbita del gruppo “In Arte Libertas” , cui aderì definitivamente nel 1897 abbracciando posizioni estetiche e filosofiche, derivanti dal pensiero degli inglesi Jhon Ruskin e William Morris, dove si tendeva a riqualificare il prodotto artistico e letterario rifacendosi ai modelli del Tre/Quattrocento e il lato idealistico/simbolista.  Spesso viene inserito nel contesto del Liberty, anche se la sua arte non si può considerare totalmente appartenente a questa corrente. Si può affermare però, che il suo stile subì un’evoluzione estetica preraffaellita, fortemente condizionata dai modelli e dagli stilemi provenienti da Giappone da un lato e da un inquieto formalismo dall’altro.

All’aprirsi del XX secolo iniziò la sua prolifica attività di decoratore, operando tra il 1897 e il 1904, nella villa Costantini Brancadoro di San Benedetto del Tronto. Nel 1901 si sposò con Lina Ciucci, sua modella preferita. Si trasferì successivamente a Firenze dove venne ordinato come docente ordinario alla cattedra di Ornato dell’Accademia di belle arti. Proprio in questo periodo inoltre, iniziò una fervente attività nel campo della xilografia, che lo portò a sviluppare una parallela attività di illustratore e collaboratore con i maggiori poeti e letterari italiani dell’epoca come D’Annunzio e Pascoli.

Nel 1911 iniziò l’impresa decorativa del “Salone dei Quattromila” nel Palazzo del podestà di Bologna. Tra il 1916 e il 1920 gli venne affidata la ristrutturazione e la decorazione dell’Aula Magna dell’Università di Pisa.

Il 4 Maggio 1922 venne incaricato dalla Commissione straordinaria governativa, allora facente le veci della Deputazione provinciale di Arezzo, di eseguire la decorazione della nuova Sala consigliare del Palazzo della Provincia, riedificata su progetto dell’ingegnere Giuseppe Paoli tra 1913 e il 1923. Nell’estate di quell’anno fu anche presente a Cortona dove fece parte della commissione artistica incaricata di giudicare i bozzetti scultorei per il concorso Monumento ai caduti della Prima Guerra Mondiale.

Nel periodo dei lavori aretini si trasferì a Roma, dove insegnò scenografia e quindi decorazione all’Accademia di Belle Arti. Nel 1925 iniziò la decorazione della cappella di San Francesco nella Basilica del Santo a Padova; poco prima aveva eseguito l’affresco con il Crocifisso nella collegiata di San Ginesio presso Macerata.

Gravemente ammalato si spense nella sua casa di Roma il 7 febbraio 1928.

Una curiosità riguardante il De Carolis è come lui, usasse spesso ritrarsi nelle vesti dei personaggi che dipingeva. Questo lo possiamo vedere nel Palazzo del Podestà a Bologna, in cui si raffigurò come San Petronio e nel Palazzo della Provincia di Arezzo, dove prese le vesti di Margaritone d’Arezzo. Le donne da lui dipinte invece, riprendevano sempre il modello dell’amatissima moglie Lina.

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L’affresco degli Uomini Illustri nel Palazzo della Provincia di Arezzo

La decorazione del De Carolis, nel Palazzo della Provincia di Arezzo, risponde ad un’idea dello stesso ingegnere Giuseppe Paoli, incentrata sul tema neo quattrocentesco degli Uomini Illustri di tutta la Provincia di Arezzo. Tale affresco, iniziato nel luglio del 1923 con l’aiuto del fratello Dante De Carolis, dall’ allievo Diego Pettinelli e dell’aretino Boncompagno (Pagno) Boncompagni, venne pensato con affianco le allegorie del Lavoro delle miniere e del Lavoro dei campi, rappresentazione tipiche di quegli anni.

L’affresco doveva concludersi nel maggio del 1924, ma per l’indisposizione di salute del De Carolis, si prolungò di qualche mese. La conclusione dell’affresco centrale con gli Uomini Illustri è comunque datata 23 novembre 1923, ma l’inaugurazione ufficialmente del Palazzo, avvenne solo il 27 settembre 1925.

Il Palazzo della Provincia è il risultato dell’unificazione di tre organismi architettonici: due medievali e uno di ricostruzione ottocentesca. L’edificio risulta estremamente articolato sia nella configurazione di stili, quello medievale infatti è unito a quello rinascimentale, sia nell’impianto, che si dispiega in una planimetria a “L” e in una volumetria su diversi livelli. Sulla facciata principalmente sono evidenti le tracce delle due case medievali; la facciata orientale, intonacata, è caratterizzata da finestre riquadrate in pietra e quella meridionale, presenta peculiarità che rimandano a palazzi privati del Rinascimento.

I portali del pianoterra immettono nel grande atrio quadrato, decorato con motivi medievali e affrescato da Adolfo de Carolis. Al piano superiore si trova la Sala dei Grandi, vano di notevoli dimensioni a pianta rettangolare e con soffitto ligneo a cassettoni. Sulla parete di fondo è situato il grande affresco degli Aretini celebri. L’affresco, situato nella parete opposta della “Tribuna” è diviso in due parti. La parte superiore, in cui sono rappresentate le arti, vede al centro lo stemma aretino con il cavallino rampante, sorretto da due fanciulli nudi ai cui lati sono rappresentati le figure classicheggianti di due donne che impersonificano l’Arte e la Scienza. Proseguendo verso gli estremi dell’affresco, vengono raffigurate le arti liberali del trivio a sinistra e del quadrivio a destra, alle quali fanno da sfondo dei fanciulli che sorreggono un drappo rosso che chiude lo spazio retrostante. Agli estremi superiori dell’opera sono ritratti gli elementi storici e architettonici, che permettono il riconoscimento della città di Arezzo: a sinistra troviamo le rappresentazioni della Chimera e della Dea Minerva, simboli delle origini della città e della cultura etrusca, mentre a destra sono raffigurate le due architetture religiose di fondamentale rilevanza per la città, il campanile della Pieve e il Duomo.

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La parte inferiore dell’affresco è invece dedicata uomini “Grandi”, rappresentanti e ambasciatori di Arte e Scienza, artefici di creazioni artistiche e pubblicazioni scientifiche, che hanno apportato prestigio alla città, caricandola di valore storico grazie al loro operato. Per l’esecuzione dell’affresco con gli aretini illustri l’artista si avvalse della collaborazione della locale Accademia Petrarca di Scienze, Lettere ed Arti.

Per quanto riguarda la disposizione delle figure, possiamo notare un certo rimando alla Scuola di Atene di Raffaello, mentre l’estrema razionalità spaziale fa pensare a Masaccio, Piero della Francesca e Andrea del Castagno.

Gli uomini illustri ritratti, partendo da sinistra sono: Mecenate, Guido Monaco, Guglielmo degli Ubertini, Margarito d’Arezzo (in cui il De Carolis si è rappresentato con un autoritratto), Fra Guittone d’Arezzo; Spinello; Masaccio da San Giovanni Valdarno; Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini; Piero della Francesca da Borgo Sansepolcro; Cristoforo Landini, umanista di Pratovecchio; Mino da Fiesole; Luca Signorelli, pittore cortonese, posto accanto a Michelangelo, il quale è rappresentato isolato dal resto del gruppo attraverso un pronao, con dietro uno dei suoi prigioni, colto nel momento della trasformazione della materia. Continuando poi troviamo ancora: Andrea Sansovino; Bernardo Dovizi di Bibbiena; Giorgio Vasari; Giulio III di Monte San Savino; Pietro Aretino; Benedetto Varchi; Andrea Cesalpino, medico e filosofo; Pietro Berrettini di Cortona; Alessandro dal Borro, uomo d’armi di Loro Ciuffenna; Francesco Redi; Bernardo Tanucci, statista di Stia; Vittorio Fossombroni e Pietro Benvenuti, pittore neoclassicista di Arezzo. Lungo le pareti, oltre l’affresco, trovano spazio le decorazioni relative alle allegorie dell’arte, della scienza, delle sette arti liberali e le scene evocanti Il Lavoro dei campi e quello Il Lavoro delle miniere.

 

Bibliografia essenziale

Atti del Consiglio di Arezzo: anno 1923, Arezzo, Zelli, 1923 pp.77-79

M.G. Fabbroni Redi, La dimora dei Grandi Aretini : mito e storia nel Palazzo della Provincia di Arezzo, Montepulciano, Le Balze, 2003

 

Andrea Sansovino e la sua patria

( a cura di M. Lachi)

Figlio di Niccolò di Domenico di Muccio e di Margherita di Nardo Zinetti, deve il soprannome al suo paese di origine, Monte San Savino, dove nacque nel 1467 circa. Il cognome Contucci non compare mai nei documenti riguardanti l’artista, ma solo dodici anni dopo la sua morte, in una tratta di uffici comunali, accanto al nome del maggiore dei suoi figli, Marcantonio. Probabilmente si tratta di un’errata trascrizione del patronimico de’ Mucci, divenuta poi usuale.

Come data di nascita, il 1467 appare più verosimile delle date proposte dal Vasari (1471 nella prima edizione delle Vite del 1550; 1460 nella seconda del 1568), perché fondato sull’acquisizione documentaria che i genitori si erano sposati giovani, col consenso del padre, nel 1465, e che il Sansovino aveva un fratello maggiore di nome Pietro. L’informazione dei Vasari risulta inoltre errata circa il nome del padre, che egli confonde con quello del nonno, e la sua condizione di poverissimo… lavoratore di terra, notizia smentita da uno strumento del 4 aprile 1508 col quale Niccolò di Domenico, dividendo i propri beni tra i figli Andrea e Pietro, assegnava a ciascuno dei due una casa a Monte San Savino e vari pezzi di terra. L’annotazione vasariana appare quindi intesa a riproporre, sulla traccia della biografia di Giotto, la leggenda del fanciullo guardiano di pecore, scoperto in questo caso dal fiorentino Simone Vespucci, che il Vasari erroneamente dice podestà di Monte San Savino, a disegnare e formare di terra il gregge affidatogli, fatto che avrebbe indotto il Vespucci a condurlo con sé a Firenze e a porlo all’arte con Antonio del Pollaiolo appresso al quale in pochi anni divenne bonissimo maestro.

La prima formazione avvenne probabilmente nella bottega del fiesolano Andrea Ferrucci, ma non è da escludere una successiva frequentazione del Pollaiolo, conclusasi probabilmente prima del 1491, dato che il 13 febbraio di quell’anno il Sansovino si immatricolava nell’arte dei maestri di pietra e legname e che il Pollaiolo era da tempo impegnato a Roma per la commissione della tomba di Sisto IV Della Rovere.

Opere del Sansovino nella sua patria

Nella chiesa di Santa Chiara che fu costruita nel 1652 e sul finire del XVIII secolo, più precisamente nel 1793, vi furono trasportate le opere prima conservate nella distrutta Sant’Agata e, in special modo, le due pale del Sansovino.

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Pala con i Santi Lorenzo, Sebastiano e Rocco

Considerata pressoché tutta autografa, la pala fu eseguita dal Sansovino a Firenze intorno al 1490 per un altare laterale dell’ex prioria camaldolese delle Ss. Agata e Lucia; altare tenuto dalla compagnia della Madonna della Neve detta anche dei Bianchi. L’artista, con molta probabilità, fu scelto dalla compagnia per realizzare il grande altare perché la prioria era la parrocchia della famiglia di Andrea e quest’ultimo godeva, ormai, in patria di una certa fama, derivatagli dalle sue prime opere fiorentine e dalle sue esperienze nell’arte della terracotta. Il manufatto dimostra il livello raggiunto dall’artista che unisce le risultanze pollaiolesche all’utilizzo della terracotta, materiale poco costoso e che non necessita di lavorazione sul luogo per il quale è richiesta l’opera.

L’opera, in terracotta non dipinta e non invetriata, ha una cornice di festoni e frutta al cui interno si trovano una lunetta con due angeli e, sotto di essa, tre nicchie con le figure dei santi al cui centro è posto San Lorenzo. Nella predella, divisa in cinque parti, sono, invece, rappresentati San Romualdo e San Benedetto a mezzo busto e tre episodi rispettivamente con il Martirio di San Sebastiano, con il Martirio di San Lorenzo e con il Miracolo di San Rocco.

Pala con la Madonna col Bambino e i Santi Agata, Lucia, Romualdo e Benedetto

La pala fu realizzata dall’artista savinese molto probabilmente intorno al 1490/1491, poco dopo la conclusione di quella di San Lorenzo.  Destinata all’altare maggiore della prioria delle Ss. Agata e Lucia, qui vi restò fino al 1793, anno in cui venne spostata nella Chiesa di Santa Chiara, sua attuale collocazione. Dopo la realizzazione, la pala fu invetriata secondo Vasari da quelli della Robbia e secondo studi successivi nella bottega di Benedetto Buglioni date le tonalità liquide e confuse con lo smalto. L’opera rappresenta cinque figure tra le quali spicca, più in alto, quella della Vergine con in Bambino in braccio seduta su una nuvola, con intorno diversi Serafini e sopra due angeli che tengono una corona. Le altre quattro figure sono San Benedetto con in mano il libro della Regola e San Romualdo con le ginocchia piegate e a lato l’eremo di Camaldoli; Santa Lucia in piedi e Sant’Agata genuflessa e voltata verso la Vergine in atto di adorarla.

Marzocco

Nei locali del Museo del Cassero si trovano, invece, altre due importantissime opere di Andrea Contucci.

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Il 3 aprile 1507 vennero pagate ad Andrea Sansovino 7 lire per ‹‹sua manifactura data nel marzocco›› posto sopra la cisterna di Piazza Sant’Agostino. All’artista, infatti, era stato commissionato dalla comunità un marzocco che venne iniziato dal Sansovino e poi portato a termine dallo scalpellino foianese Biancalana e pitturato da Niccolò Soggi. Il 20 dicembre 1675 il marzocco posto sopra la cisterna di Piazza Sant’Agostino venne ridotto in frantumi e le parti superstiti vennero conservate per molto tempo nella cancelleria del comune fin quando il frammento più grande fu murato in alto sulla fronte esterna della Porta Senese dove si trova tuttora. Un altro marzocco, molto simile a quello del Sansovino, era stato però richiesto, il 15 novembre 1506, al medesimo scalpellino Biancalana e, dopo essere stato per molto tempo sulla facciata del palazzo pretorio, è oggi visibile nel Museo Comunale del Cassero.

Madonna col Bambino

Madonna col Bambino in marmo databile tra la fine del XVI e l’inizio del XVII, che riprende i modi di Andrea Sansovino.

Sepolcro di Fabiano di Monte

Nella Pieve di Monte San Savino, che fu costruita intorno al 1175, con il trasferimento della Pieve di Barbaiano entro le mura cittadine, si trova oltre ai resti dell’affresco di Niccolò Soggi raffigurante Angeli reggi cortina, il Sepolcro di Fabiano di Monte progettato dal Sansovino.

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Stando a ciò che è riportato in un documento del 1498, Fabiano Ciocchi di Monte avrebbe commissionato ad Andrea Sansovino il suo monumento funebre da porre sotto la cantoria della Pieve.  L’artista, rientrato dalla penisola iberica, avrebbe terminata entro l’anno 1500 l’opera che si ispira ai monumenti romani del quattrocento e che segue lo stile di Andrea Bregno e lo schema delle sepolture con il defunto entro un’edicola trabeata. La statua rappresenta Fabiano con la berretta e la zimarra dottorali, il capo poggiato su un morbido cuscino e gli avambracci e le mani posati su un codice. Il fregio rappresenta delfini, tridenti, conchiglie e fiori, mentre i pilastrini sono ornati con festoni di frutta, piccoli scudi e con lo stemma Ciocchi di Monte.

Atrio di Sant’Agostino

La Chiesa di Sant’Agostino venne fatta costruire nel XIV secolo dai frati agostiniani e fu fatta ampliare a più riprese nei secoli successivi anche con l’intervento del Sansovino.

Nel 1525 il Sansovino addossò alla controfacciata della chiesa il vestibolo o atrio in stile gotico, chiamato tramezzo dal Vasari, di armonia lineare e costituito da tre arcate con cornici sagomate su due colonne ioniche scanalate e campate con volte a vela.

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Chiostro

Adiacente al fianco sinistro della chiesa, si trova il chiostro di sant’Agostino, che si articola su due piani fra i quali corrono due leggere cornici. I lavori del chiostro iniziarono nel 1522 e furono condotti secondo un progetto elaborato da Andrea Sansovino e messo in opera da Antonio di Giovanni di Ser Cristoforo e da Domenico di Nanni Piffero e Antonio suo figlio; senza escludere l’opera dell’artista che si dedicò in particoar modo ai capitelli del secondo ordine.

Portale

Il Battistero di San Giovanni risale al XV secolo ed era originariamente un oratorio dedicato a Sant’Antonio. L’accesso al battistero di San Giovanni avveniva dall’interno del Chiostro di Sant’Agostino, tramite un portale di componimento dorico che fu realizzato dal Sansovino con due colonne scanalate che reggono la trabeazione a triglifi e metope decorate alternativamente. Questo portale venne smontato e posto nella parete che si affaccia sulla piazza, quando l’oratorio fu cambiato di orientamento.

Casa

Andrea Sansovino, nel 1515, restaurò la sua casa in Piazza di Monte, realizzando dei muri di sostegno, una serie di colonnine e modificando uno sdrucciolo. La casa del Sansovino è, infatti, un semplice fabbricato a tre piani, il terzo dei quali è con molta probabilità la sopraelevazione progettata dall’artista, dal momento che è distaccato dagli altri da una cornice che traversa tutta la facciata.


M. Salmi, Andrea Sansovino e i Della Robbia, 1979

N. Baldini – R. Giulietti, Andrea Sansovino: i documenti, 1999

L. Serra, Andrea Sansovino (1460-1529), 1941

Il colle di Castelsecco

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( a cura di M. Lachi)

L’altura di Castelsecco si eleva, con i suoi 424 metri sul livello del mare, a circa tre chilometri a Sud Est dalla città di Arezzo, quasi frontalmente rispetto al colle di San Donato su cui sorgeva l’antica Arretium, e domina una delle principali vie di comunicazione: quella tra la valle dell’Arno e la valle del Chiana da un lato e tra la valle del Tevere ed il territorio umbro dall’altro. Il colle è reso unico dalla sua particolare configurazione a terrazza gradonata e dal suo profilo, che, grazie all’ampio pianoro sommitale appositamente sagomato da consistenti interventi antropici, risulta ben riconoscibile anche in lontananza, dalla città di Arezzo e dalle valli circostanti. La parte più meridionale della collina, in età tardo etrusca, attorno al II secolo a.C., era costituita da un’imponente terrazza di forma pressoché ovale utilizzata come luogo di culto. Il colle era leggermente gradinato e il suo perimetro, sul lato Sud, era costituito da una monumentale struttura muraria semicircolare rinforzata e decorata da quattordici speroni aggettanti; di questi i sei centrali avevano la parete ricurva a formare esedre ed erano, probabilmente, anche chiusi in alto ad arcata. Tale struttura, fu realizzata a secco utilizzando grossi blocchi squadrati cavati, quasi sicuramente, in loco.

In passato al colle sono state attribuite le più disparate funzioni; è stato, infatti, ritenuto prima sede del nucleo più antico di Arezzo, poi dell’acropoli della città, in seguito di costruzioni romane e ancora dello stanziamento delle legioni romane. Solo nella seconda metà dell’Ottocento vennero attuati studi più approfonditi in merito alla storia di Castelsecco. Fu l’ingegnere aretino Vincenzo Funghini, a fare del colle l’oggetto di molti suoi scavi e di sue importanti indagini, che documentarono con precisione le strutture presenti ed illustrarono in modo chiaro tutti i materiali rinvenuti. Si deve, però, a Guglielmo Maetzke la più sistematica esplorazione dell’area e la prima corretta interpretazione del sito sotto il profilo archeologico: lo studioso eseguì, infatti, brevi saggi negli anni ’60 e nella metà degli anni ’70 del secolo scorso, cui seguirono ulteriori approfondimenti nel 1983-84. Questi permisero di accertare come l’altura fosse stata frequentata, fin dal periodo arcaico e come fosse stata, con molta probabilità, oggetto di un grande intervento edilizio nel periodo ellenistico che vide la costruzione di un santuario e del muro monumentale di sostegno, cui fecero seguito rifacimenti architettonici in età romana. Le indagini di Maetzke, unitamente ai lavori di asportazione degli accumuli di terre e detriti, di rimozione della vegetazione infestante lungo il lato esterno del grande muro semicircolare di sostegno e di relativi interventi di consolidamento e restauro, eseguiti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana nel 1969,  restituirono all’imponente struttura tutta la sua monumentalità. In quel contesto, infatti, partendo dalla pianta redatta da Vincenzo Funghini, furono eseguiti saggi esplorativi e scavi approfonditi sul pianoro sommitale, che evidenziarono il grande podio rettangolare che si erge per circa sei metri sul piano del santuario e che risultò costituito da uno sperone di roccia emergente regolarizzato, ritagliato ed integrato da riporti di terra, su cui doveva elevarsi l’edificio templare, di cui, però, vennero rivenute soltanto scarsissime tracce. Un rialzo, situato ad Est, leggermente meno elevato e parallelo a quest’ultimo, fece poi ipotizzare la probabile presenza di un secondo edificio di culto. Un reticolato di numerose trincee esplorative eseguite nello spazio antistante i templi presente in direzione Sud, evidenziò fin da subito, come tale area, totalmente priva di elementi strutturali, fosse stata appositamente spianata, in antichità, con taglio e livellamento della roccia affiorante. Ma la scoperta più rilevante fu, senz’altro, quella dei resti di un edificio, entro il quale si svolgevano spettacoli, all’estremità Sud del pianoro, in prossimità  del muraglione perimetrale, distanziato rispetto agli edifici di culto. Dell’edificio risultò leggibile e ben conservata la cavea, che si appoggiava ad uno sperone di roccia accuratamente livellato: l’ima cavea presentava quattro bassi gradini, cui si aggiungevano tracce di almeno altri tre gradini nella media cavea, alle loro spalle; mentre la summa cavea, delimitata da un marciapiede che correva parallelo al muro perimetrale, doveva essere costituita,  molto probabilmente, da strutture lignee o da subsellia mobili. Davanti alla cavea vennero rinvenute l’orchestra semicircolare con una parte della pavimentazione a lastre lapidee su cui era intagliata una canaletta di deflusso delle acque; le parodoi; i resti del pulpitus e i resti della frons scaenae che insistevano sul poderoso sistema di terrazzamento speronato. Gli elevati dell’edificio scenico, probabilmente costituiti per lo più da materiali non lapidei, in parte lignei in parte, forse, di mattoni crudi o semicotti protetti da rivestimenti fittili, lastre decorate a stampo a rilievo e antefisse, non dovevano raggiungere originariamente un’altezza eccessiva, in modo tale da lasciare agli spettatori la vista del panorama retrostante. Gli scavi portarono, inoltre, al rinvenimento dell’area dell’orchestra a clessidra, una struttura in pietra di tradizione etrusca e attribuirono al luogo dello spettacolo un’ambientazione entro uno spazio di carattere sacro, correlando l’edificio teatrale ai resti delle altre costruzioni che costituivano le strutture di un santuario. Il ritrovamento, tra l’altro, di un piccolo altare lapideo rovesciato nell’orchestra, che doveva trovare la sua collocazione originale sul pulpitum, conferma il carattere cultuale del piccolo teatro e il presumibile argomento sacro delle rappresentazioni che lì si svolgevano.Tra i materiali rinvenuti nell’area di Castelsecco, particolare significato rivestono gli ex voto fittili rappresentanti bambini in fasce che attestano la presenza del culto di una divinità femminile legata alla fertilità e alla protezione della maternità. Ma parimenti significativo appare anche il ritrovamento di due lastre di pietra recanti dediche ad una divinità probabilmente femminile non nominata e a Tinia, in lettere etrusche. Castelsecco, infatti, nel I e II secolo a.C., apparteneva quasi certamente, al gruppo di santuari che occupavano una posizione particolarmente strategica, dal momento che poneva in comunicazione il centro di Arezzo con la Valtiberina e, attraverso questa, con il litorale adriatico ad est e con le aree interne etrusche dell’Umbria a sub. La tesi più accreditata è che il sacrario di Castelsecco fosse dedicato alla dea etrusca Uni, dalla quale derivò la romana Iuno, Giunone. La dea Uni fu la Grande Madre, la generatrice universale che, assieme alla dea Turan, il cui nome significa la signora, formarono, nel culto degli Etruschi, il binomio inscindibile della fertilità e della vitalità. Dal momento che la società etrusca era una società matriarcale, il colle di Castelsecco con i suoi riti propiziatori, fu il loro inno alla vita e all’amore.

Dagli studi è stato possibile ipotizzare che dopo una fase di abbandono, nell’alto medioevo, l’altura fosse stata poi nuovamente frequentata in epoche successive, come dimostra la costruzione,  presso il teatro, di una piccola chiesa ancora esistente nel XVIII secolo, identificabile come San Pietro in Castro Sicco. Gli scavi restituirono, infatti, un altare ricavato da un blocco parallelepipedo proveniente sicuramente dalle mura monumentali. A Nord del podio del tempio fu costruito un oratorio dedicato ai SS. Cipriano e Cornelio (poi chiesetta di proprietà Giusti) e, nei pressi, una casa colonica; all’angolo Ovest dell’edificio scenico nel XV-XVI secolo, con le pietre asportate dal teatro stesso, una piccola abitazione.

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 Al termine della lunga campagna di scavo, fu effettuato un intervento conservativo e di restauro anche delle strutture del teatro, di cui fu poi decisa la ricopertura con la terra. Merita di essere sottolineata la saggezza e la lungimiranza dell’allora Soprintendente Guglielmo Maetzke, il quale prese la difficile e coraggiosa decisione di interrare le strutture emerse, al fine di garantirne la salvaguardia e la conservazione per le generazioni future, in una zona isolata e di non facile vigilanza, soggetta a forte impatto degli agenti atmosferici ed in presenza di materiali costruttivi di alta deperibilità: possiamo dire che grazie a tale scelta, Arezzo possiede ancora il complesso archeologico di Castelsecco. Agli inizi degli anni ’90 del Novecento, poi, la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana intraprese un ulteriore consistente intervento per il risanamento ed il restauro della poderosa struttura semicircolare. Nel 1978 fu dichiarato con decreto ministeriale l’importante interesse archeologico dell’area e nel 1992 si è svolto ad Arezzo un convegno  promosso dal locale Centro Unesco, in cui fu fatto il punto sullo stato degli studi e della ricerca, sui progetti di recupero e sulle prospettive dell’importante sito archeologico, che restano ancor oggi la valida base per future strategie di valorizzazione.

 


A. Tafi; Immagine di Arezzo. Guida storico-artistica; Arezzo; 1978

F. Paturzo; Arezzo antica. La città dalla preistoria alla fine del mondo romano; Cortona; 1997

Theimer – Breve Biografia

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 (a cura di M. Lachi e G. Narducci)

Nato nel 1944 a Olomouc, in Moldavia, Theimer si iscrisse l’Accademia di Belle Arti. Successivamente, si trasferì nel 1968 in Francia, dove continuò gli studi artistici presso l’Accademia di Belle Arti di Parigi. Nel 1978 venne invitato a partecipare alla Biennale di Venezia nel Padiglione francese e nello stesso anno partecipò a una mostra collettiva dedicata al disegno d’architettura organizzata dalla C.C.I., al Centre Pompidou.

Molte sono state le mostre personali e collettive che si sono susseguite in Europa, ma soprattutto tra Francia, Italia, Germania, Svizzera e Repubblica Ceca. Tra le mostre più recenti in Italia si ricordano la personale nel 1997 a Lucca, presso Villa Bottini; 1998 nella piazza del Duomo e nella Chiesa di Sant’ Agostino di Pietrasanta; 1998 ad Aosta; Villa Demidoff all’ Isola d’Elba nel 2003; nella Rocca Malatestiana e in città a Cesena 2004; Boboli e Palazzo Pitti nel 2008.

Le sue opere sono di stampo pressoché monumentali. Predilige soprattutto le fusioni in bronzo dal solido impianto classico, dal quale affiorano immediatamente le sue fonti di ispirazione, passando della scultura antica e dalle strutture piramidali dell’antico Egitto, fino ad arrivare alle forme dei manieristi toscani. Le sue opere si ispirano quindi direttamente all’antico e si assiste ad una miscela di luoghi, culti, memorie, obelischi, animali, archi di trionfo, medaglie, citazioni e geroglifici. Il tutto espresso con dettagli definiti e con l’ autenticità del materiale.

Le radici culturali di Theimer, come egli afferma, «sono nate da direttrici che vanno da Bernini alla scuola neoclassica francese, dal Rinascimento all’architettura barocca». Affascinato dai confini, sia geografici che dell’anima, ricerca le zone di contatto dove le correnti si sovrappongono, creando una sintesi tra mito e sacro, che possiamo rintracciare anche negli acquerelli e nei disegni. Questi ultimi infatti, documentano la sua produzione scultoria nel corso dei suoi viaggi in Cina, India, Giordania, Uzbekistan, Nepal e Mongolia.

Numerose sono le opere commissioni ricevute per gli spazi pubblici in tutta Europa, tra cui tre obelischi di bronzo per il Palazzo dell’Eliseo e il monumento commemorativo della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino per il bicentenario della rivoluzione francese negli Champs de Mars, sempre a Parigi. Numerose altre opere si trovano in diverse città tedesche come Kassel, Amburgo e Fulda, mentre in Italia, possiamo vedere la Cattedra vescovile, l’altare e l’ambone realizzati dall’ artista per la Basilica di Massa Marittima.

“Il Sogno di Ivan Theimer” ad Arezzo, curata da Vittorio Sgarbi è stata inaugurata venerdì 24 giugno presso due sedi, la Galleria Comunale d’Arte Contemporanea in piazza San Francesco, con all’ interno acquerelli e disegni dell’artista e presso la Fortezza Medicea con le sculture bronze, la quale, per l’occasione è stata riaperta al pubblico dopo gli importanti interventi di restauro e consolidamento. La mostra resterà aperta fino al 23 ottobre, dal martedì alla domenica, dalle ore 10.00 alle 18.00.

Il titolo della mostra, sta nella realizzazione dell’artista di poter esporre accanto a Piero della Francesca: «Il mio sogno si realizza oggi ad Arezzo» ha raccontato Theimer, «Quando da ragazzo studiavo all’ Accademia di Parigi venivo ad Arezzo per studiare gli affreschi di Piero della Francesca. Esporre le mie opere così profondamente legate al maestro, nella sua città è commovente, è il compimento del mio percorso artistico e umano. I copricapo delle mie sculture guardano ai cappelli dei trombettieri degli affreschi della Vera Croce. Ho sognato per tutta la vita di poter esporre le mie lampade,  le mie creazioni accanto agli affreschi di Piero della Francesca. Oggi sono sveglio, il mio sogno è qui e si compie dentro la pancia della Fortezza medicea di Arezzo».


Il Sogno di Theimer

Arezzo, dal 24 Giugno al 23 Ottobre 2016

Ivan Theimer –  a cura di Vittorio Sgarbi

Fortezza Medicea e

Galleria Comunale d’Arte Contemporanea,

Piazza San Francesco

52100 Arezzo AR

Dal martedì alla domenica, 10.00 – 18.00

http:/ www.comune.arezzo.it

Le antiche cinta murarie di Arezzo e La Fortezza Medicea

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( a cura di M. Lachi e G. Narducci)

L’antica Arezzo, tra VI e IV secolo a.C., era probabilmente abitata dagli Umbri e occupava l’area dei colli di San Pietro e di San Donato, dove oggi si può ammirare la fortezza medicea. Nel corso dei secoli VII-VI a.C. Arezzo divenne etrusca e, nel V secolo a.C. era già una delle maggiori lucumonie etrusche. Fu proprio durante quel periodo storico, che Arezzo ebbe la sua prima cinta di mura in pietra, costituita da un quadrilatero rettangolare con un perimetro di circa due chilometri. Successivamente, quando la popolazione aumentò di pari passo con l’aumentò della notorietà e dell’importanza della città, Arezzo ebbe una nuova, seconda, cinta muraria più possente ed estesa della prima ( quattro- cinque chilometri).

A seguito delle violente guerre e della rovinosa sconfitta degli Etruschi, Arezzo divenne romana e fu, fin da subito, considerata uno degli avamposti di difesa e di conquista del nord. La città venne, per questo motivo, ricostruita ed ebbe la sua terza cinta muraria, detta cinta laterizia, formata da mattoni il cui spessore interno era di 4.30 metri. Si dice che questa cinta fosse talmente magnifica, che la citarono nei loro componimenti perfino Livio, Plinio e Vitruvio.

Sotto il dominio dell’Impero Romano, tra il II e il I secolo a.C., Arezzo visse uno dei momenti di maggior floridezza e, con l’arrivo e l’affermazione del Cristianesimo, divenne sede vescovile. Nel V secolo d.C., le invasioni barbariche diedero, però, inizio ad un periodo di decadenza e difficoltà sia politica che sociale e, tra la fine del VI secolo e l’inizio del VII secolo d.C., quando Arezzo fu sottomessa dai Longobardi, venne costruita la quarta cinta muraria, che veniva detta barbarica e misurava circa 1600 metri.

Agli inizi del XII secolo la quinta cinta muraria era già stata costruita; si estendeva per due chilometri ed era stata edificata con l’intento di racchiudere al suo interno i nuovi insediamenti cresciuti a nord della città. Arezzo medievale vide, poi, nel 1200, la costruzione della sesta cerchia di mura, lunga quasi tre chilometri e eretta in seguito al continuo aumento della popolazione e degli abitati.

Dopo gli inquieti conflitti politici e sociali, che Arezzo visse nel corso del duecento a causa degli scontri tra le famiglie aristocratiche guelfe e ghibelline, il compito di risollevare le sorti della città fu affidato al vescovo Guido Tarlati, che oltre a pacificare la vita interna di Arezzo e a favorirne lo sviluppo economico e culturale, fece edificare, tra il 1319 e il 1330, all’incirca dove si trovano le attuali mura, la settima cinta muraria fortificata, lunga oltre cinque chilometri. Oltre all’edificazione della settima cinta muraria, Guido Tarlati, fece costruire anche tre fortilizi: uno nei pressi di Porta San Clemente, uno nelle vicinanze Porta San Lorentino e uno sulla sommità del colle di San Donato. Quest’ultimo venne lesionato prima del 1337 e, poi, subito ricostruito dai fiorentini, che nel frattempo avevano preso possesso di Arezzo. Furono, nel 1343, gli stessi aretini a demolire un’altra parte del fortilizio, come gesto d’odio nei confronti dei fiorentini. Questa venne, però, immediatamente riparata perché ritenuta di fondamentale importanza per la difesa contro gli attacchi degli invasori. Circa quarant’anni più tardi furono le truppe francesi scese in Italia a rovinare parzialmente la fortezza aretina, ma nel 1398, questa fu nuovamente edificata dai fiorentini, dopo averla acquistata insieme all’intera città di Arezzo. La nuova costruzione era talmente solida e ben fatta che restò integra per ben cento anni, fino a quando, nel 1502 furono ancora una volta gli aretini ad abbatterla, impegnati in una ribellione contro il potere di Firenze. Dopo solo tre anni, i fiorentini decisero di riedificare la fortezza affidando il progetto a Giuliano da Sangallo e a suo fratello Antonio, i quali seguirono nuovi criteri di costruzione tesi ad aumentare la sicurezza contro gli attacchi degli stessi aretini.

Nel 1538 fu lo stesso Cosimo I de Medici a decidere di porre rimedio una volta per tutte alle devastazione cui era stata sottoposta, nel corso dei decenni, la fortezza. Impose mezzi difensivi più efficienti al fine di renderla maggiormente rinforzata e, pertanto, non fece costruire alte torri e merli, ma dei robusti terrapieni e bastioni che la resero comunque anche elegante ed armoniosa. I bastioni furono cinque: il primo, designato con il nome la Spina per la sua forma a punta di spina; il secondo detto il Belvedere perché dalla sua cima si aveva una veduta panoramica verso sud; il terzo aveva per nome della Chiesa perché vicino ad esso si trovava la Chiesa di San Donato; il quarto denominato del Soccorso perché era in prossimità della Porta del Soccorso; il quinto e ultimo bastione veniva chiamato della Diacciaia perché al di sotto era situato un ambiente per la conservazione del ghiaccio.

Questa fortezza, così rinnovata e irrobustita , per molti anni non subì grandi stravolgimenti e rimase in attività fino al 1782.

Il 27 ottobre 1800, però, la fortezza si trovò a dover sopportare i gravi danneggiamenti provocati delle mine delle truppe francesi, che distrussero, la Chiesa di San Donato e altri edifici posti all’interno della fortificazione. Dopo questo triste evento, la fortezza restò abbandonata fin a quando la famiglia Fossombroni, intorno alla metà del’800, non ne venne in possesso, per poi lasciarla in dono, nel 1893, al Comune di Arezzo. Quest’ultimo, insieme alla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, hanno promosso nel corso degli anni lavori di restauro e riqualificazione con costanti controlli degli scavi e con l’esecuzione di saggi esplorativi che hanno portato alla luce fondamentali elementi strutturali del complesso difensivo e degli edifici in esso contenuto, oltre a rendere certe alcune importanti preesistenze medievali e di età antica. Tra tutti, uno dei più degni di nota, è la Chiesa di san Donato in Cremona in prossimità del Bastione della Chiesa, che appare straordinariamente preservata nello sviluppo architettonico delle navate e che presenta, nella cripta, pareti in elevato per circa quattro metri d’altezza, attacchi delle volte a crociera e due colonne. Nella zona tra il Bastione del Soccorso de quello della Diacciaia, inoltre, è stato rinvenuto un edificio di età romana di cui sono stati portati alla luce tre ambienti che custodiscono piani pavimentali musivi a tessere bianche e nere, con motivi a stuoia e a nido d’ape, risalenti agli ultimi decenni del I secolo a. C., eccezionalmente conservati.

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Maestro di San Michele, San Michele Arcangelo.

La statua in pietra arenaria è stata rinvenuta durante gli scavi effettuati nella zona nord della Fortezza tra il 1989 e il 1991, insieme all’antica e monumentale Porta Sant’Angelo, posta in prossimità della Chiesa di Sant’Angelo in Archaltis. L’opera presenta tracce di policromia ed è datata intorno all’inizio del secolo XIV. Caratteristiche sono le labbra sottili e piccole, la leggera inclinazione della testa, il taglio degli con la pupilla a rilievo, che richiamano altre opere scultoree tra cui due Madonne col Bambino, poste anticamente a protezione delle porte cittadine di San Clemente e di San Lorentino e un San Sigismondo, realizzato per l’antica Cattedrale del Pionta. La posizione è quella di attribuire le quattro opere a un unico artista, convenzionalmente chiamato “il Maestro del San Michele”, dal nome della scultura che sembra essere la più antica, attivo nella prima metà del secolo XIV.